Il Covile
Costanzo Preve
Gli intellettuali italiani e la questione scolastica
Riflessioni su alcune tendenze dell'ultimo trentennio (gennaio 2002)
- Nel dicembre 2001 il ministro berlusconiano Letizia
Moratti ha tenuto a Roma i cosiddetti Stati Generali della scuola
italiana, ed è cominciato ad emergere in modo relativamente chiaro non solo
l’insieme di progetti concreti di modifica dei cicli, coordinati dal pedagogista
Bretagna, ma anche l’idea generale di scuola che vi sta sotto. Tuttavia, così
come il progetto di Gentile del 1923 non deve essere assolutamente identificato
con il fascismo, così come spesso si fa per polemica spicciola ed affrettata,
nello stesso modo il progetto della Moratti del 2001 non deve essere
identificato con il berlusconismo, ammesso che questo termine indichi un
progetto politico unitario e coerente (cosa che personalmente io non credo).
Prima della nuova epoca Moratti, c’è stata fra il 1996 e il 2001 l’epoca
cruciale di Luigi Berlinguer (con la coda irrilevante e pre-elettorale di Tullio
De Mauro, portatore della stessa concezione della scuola di Berlinguer). A mio
avviso, è questa l’epoca decisiva, retta da una sorta di concezione di
descolarizzazione sociologica della scuola che occorre comprendere nei suoi
termini esatti, senza farsi fuorviare da considerazioni polemiche di corto
respiro. Ma questa epoca decisiva, l’epoca Berlinguer, non può essere a sua
volta compresa senza un’adeguata collocazione storica, al di fuori della quale
diventa tutto incomprensibile.
- Per ragioni di
spazio, è impossibile partire da troppo lontano, come dalla riforma Casati del
1859 o dalla riforma Gentile del 1923, con tutti gli ovvi aggiustamenti
intermedi. Vi sono libri che ne ricostruiscono in dettaglio le storie, ma in
queste note vorremmo evitare qualunque apparato bibliografico, perché il lettore
guardando i singoli alberi non perda di vista la foresta, cioè lo sguardo
complessivo. Partirò dunque dagli anni Sessanta, e non solo per
l’importantissima riforma della Scuola Media Unica, ma perché gli anni Sessanta
sono il termine temporale a quo si può incominciare a capire qualcosa di quanto
avviene oggi.
- Ho ricordi personali vivissimi degli
anni Sessanta. Questo di per sé, ovviamente, non è una garanzia di oggettività e
di attendibilità, perché è evidente che il coinvolgimento soggettivo non può
essere in nessun modo una prova scientifica di profondità nell’interpretazione
(come ben sanno gli esperti di storia orale, coscienti del fatto che i testimoni
diretti possono a volte deformare la realtà dei fatti assai più di quanto
possano fare degli estranei totali). Io sono nato nel 1943, e gli anni Sessanta
coincidono con i miei studi universitari, compiuti in larga parte all’estero (in
Francia e in Grecia), con la scoperta della mia vocazione filosofica e con la
mia vocazione politica comunista e marxista, ed infine con i due eventi del
matrimonio e della scelta della professione (i due eventi considerati dal
filosofo tedesco Hegel come i due eventi cruciali nel passaggio dall’astrazione
intellettuale dell’età giovanile alla concretezza razionale e determinata
dell’età adulta). Il lettore mi perdonerà questa piccola parentesi
autobiografica, ma essa viene qui introdotta solo per collocare il contesto del
mio giudizio sugli anni Sessanta in Italia, da cui inizia logicamente la mia
riflessione sulla scuola.
Per una parte importante della gioventù italiana
ed europea gli anni Sessanta sono stati il grande decennio della modernizzazione
capitalistica soggettivamente vissuto come il decennio dell’anticamera
rivoluzionaria del passaggio al comunismo. Oggi è estremamente difficile
spiegare questo ad un giovane, dato il radicale cambiamento della situazione
storica che si è avuto nel frattempo. Tuttavia, la comprensione del paradosso
dialettico della compresenza conflittuale fra modernizzazione capitalistica ed
utopia rivoluzionaria è difficile anche per i membri della generazione del
Sessantotto, che tendono a rimuovere nevroticamente questo paradosso, e si
dividono facilmente nelle due grandi categorie dei nostalgici e dei rinnegati.
Il nostalgico continua a pensare che l’utopia rivoluzionaria non è stata
realizzata soltanto per errori politici di tipo soggettivo, e che dunque lo
“spirito del Sessantotto” deve essere mantenuto ed eternizzato, sia pure con le
modificazioni di tattica politica che questo richiede. Il rinnegato, invece,
considera il perseguimento dell’utopia rivoluzionaria uno sciagurato anche se
inevitabile equivoco giovanile, cui la saggezza dell’età sostituisce l’adesione
attiva ai valori dell’impero americano (il caso di Adriano Sofri è in proposito
assolutamente esemplare).
- Le testimonianze dei
nostalgici e dei rinnegati sono ovviamente opposte, ma hanno un segreto elemento
in comune. E questo elemento sta proprio nella mancata comprensione del
meccanismo teorico che permise la sovrapposizione dell’utopia rivoluzionaria
comunista alla sostanza della modernizzazione capitalistica del costume e dei
riti sociali e generazionali. Una volta che questo elemento sia stato compreso,
il paradosso cessa di essere paradossale, e diventa assolutamente
concettualizzabile, e quindi comprensibile, e quindi anche accettabile
serenamente senza nostalgia ma anche senza vergogna e ripudio. Si tratta del
fatto che la generazione del Sessantotto, che si accostò e praticò per almeno un
decennio l’utopia rivoluzionaria comunista, quasi sempre in piccoli gruppi
impropriamente definiti “estremisti” (impropriamente, perché invece
interpretavano bene non “l’estremo”, ma il “normale” ed il “tipico” dello
spirito del tempo), identificò il capitalismo con la borghesia, o più
esattamente l’economia capitalistica con il costume familiare e sociale
borghese, e pensò che rivoltandosi contro la borghesia e la sua cultura si
rivoltava anche e soprattutto contro lo sfruttamento capitalistico. In Italia
questo avvenne attraverso l’adozione di massa della variante operaistica del
marxismo, in cui la classe operaia era divinizzata, ma anche segretamente
disprezzata con il suo essere ridotta a strumento degli astratti furori
iconoclastici della rivolta generazionale della piccola borghesia contro
l’autoritarismo paterno. La classe operaia, per conto suo, in modo parallelo ma
assolutamente indipendente, perseguì invece non il progetto operaistico, cioè la
comunistizzazione fantasmatica della propria collocazione sociale, ma
l’integrazione migliorata nella società capitalistica mai messa seriamente in
discussione, e trovò nel sindacato unitario CGIL-CISL-UIL e nel partito PCI (poi
PDS ed infine DS) il suo sbocco sociale e politico logico, razionale e coerente.
Questa concezione antropomorfica del capitalismo, anzi del modo di
produzione capitalistico, che è un sistema impersonale e non un soggetto
personale trascendentale, avrebbe già potuto essere respinta con gli argomenti
di Spinoza e poi di Hegel, filosofi che seppero molto bene al loro tempo
respingere le ingenue antropomorfizzazioni della società. Ma questo non avvenne,
perché la filosofia è una grande maestra che insegna sempre in un’aula vuota. In
breve: la scorretta antropomorfizzazione concettuale di un ente per sua natura
non antropomorfico, il modo di produzione capitalistico, era lo strumento
ideologico più adatto, ed anzi ideale, per poter condurre una rivolta
generazionale anti-borghese volta alla modernizzazione ipercapitalistica del
costume all’interno della falsa coscienza necessaria (uso qui un concetto di
Marx di cui non cesso di ammirare la pregnanza e la pertinenza esplicativa) di
stare conducendo una lotta anticapitalistica. Questa lotta in realtà non poteva
essere condotta su queste basi anti-borghesi, per il semplice fatto che era il
capitalismo stesso nel suo anonimo ed impersonale meccanismo autoriproduttivo a
premere per una deborghesizzazione controllata del costume in una direzione
post-borghese, in vista di una individualizzazione ulteriore manipolatoria della
figura del consumatore, resa finalmente astratta e flessibile, e non più
vincolata a costumi borghesi parzialmente contraddittori con quella
liberalizzazione nichilistica e totalitaria. Il capitalismo sottomette infatti
alla propria riproduzione non solo il proletariato, come è largamente noto, ma
anche la borghesia, e non solo la piccola borghesia, come è altrettanto noto, ma
la stessa grande borghesia, come è meno noto, ma come già a suo tempo filosofi
come Adorno e scrittori come Thomas Mann capirono già molto bene.
- Bene, dirà a questo punto il lettore, tutto questo è molto
interessante, ma che cosa c’entra con la situazione scolastica? C’entra,
c’entra, ed anzi c’entra talmente tanto da costituire la mia chiave
interpretativa del mio esame dell’intera questione, almeno per quanto riguarda
l’ultimo trentennio, se non l’ultimo quarantennio. La rivolta anti-borghese,
convinta di essere anche anticapitalistica, laddove lo stesso capitalismo
cercava per conto suo di realizzare una scuola post-borghese e pienamente
funzionale alla nuova fase del capitalismo, si rivolse contro la scuola detta
“borghese”, la sua cultura e le sue modalità di trasmissione, ed in questo modo
metteva le basi teoriche inconsapevoli per la sua trasformazione in fattore
servile, subalterno e coadiuvante di questo progetto capitalistico
post-borghese. Lo sciagurato quinquennio di Luigi Berlinguer e di Tullio De
Mauro (1996-2001) non viene dunque dal nulla, e non è unicamente spiegabile con
teorie del tradimento, eccetera. C’era in realtà una logica in quella follia. Lo
scopo di questo mio breve saggio è la ricostruzione sommaria di questa logica
paradossale del rovesciamento del vecchio populismo sociologistico anti-borghese
in modernizzazione luddistica dell’istituzione scolastica. A sua volta, la
comprensione della natura economica ed aberrante del quinquennio berlingueriano
(1996-2001) permette di capire meglio l’attuale scenario morattiano del 2002,
con le possibili contraddizioni che aprirà, e che sono già in parte visibili
oggi, in cui siamo solo all’inizio.
- La riforma della scuola del primo centro-sinistra del 1964 è stata a mio avviso un punto
alto e pienamente positivo nella nostra storia. Se è messa a confronto poi con
lo sciagurato quinquennio dei pidiessini Berlinguer-De Mauro questo risalta in
modo ancora più luminoso. Questa riforma si basava su due punti entrambi
positivi. In primo luogo, l’istituzione della Scuola Media Unica con
l’abolizione della canalizzazione precoce, e ferocemente classista, fra vecchia
scuola media con il latino e scuola d’avviamento al lavoro. Avendo vissuto
personalmente il periodo precedente, ricordo perfettamente che i nostri gruppi
di amici erano divisi in due fra i futuri lavoratori precoci ed i futuri
studentelli, in un’età in cui questa divisione era vissuta proprio per quello
che era, una divisione non solo di classe ma quasi di casta. In secondo luogo, e
questo è sottolineato sempre troppo poco, il fatto che questa benemerita riforma
non toccò quasi l’istituzione benemerita del liceo (non importa se classico o
scientifico), salvandone l’impianto illuministico, laddove sia la riforma
Moratti sia la riforma Berlinguer lo mettono in pericolo, in direzione di una
sciagurata americanizzazione della scuola secondaria superiore.
Faccio
questo rilievo per ricordare una cosa comunque ovvia. Il riformismo non è mai
frutto di un personale politico, che è sempre un semplice esecutore subalterno
di grandi processi storici, ma è sempre il frutto di momenti storici che lo
rendono possibile. Allora, nel 1964, si viveva una stagione riformistica. Nel
quinquennio 1996-2001 il personale politico di origine picista era invece al
servizio di un progetto controriformistico, indipendentemente dalla falsa
coscienza ideologica con cui mistificava a se stesso questa funzione.
- una volta messa in piedi la Scuola Media Unica, si
fece poi lo sbaglio populistico-pedagogico di privilegiarne l’irrilevante
aspetto della socializzazione anziché concentrarsi sul cruciale apprendimento
disciplinare. Di qui gli stupidi abbandoni dell’analisi logica e grammaticale,
la trascuratezza verso la matematica, eccetera. Alle classi subalterne, appena
ammesse alla scolarizzazione, si consegnava una scuola caratterizzata da un
indirizzo pedagogico radicalmente sbagliato.
I bambini fanno la loro
socializzazione nel cortile, non in classe. In classe si impara sempre e
soltanto una disciplina, il suo metodo ed il suo contenuto. Questo è il
contrario del cosiddetto classismo, ma è anzi la premessa di una concezione
veramente democratica, in cui si insegnano al giovane cittadino strumenti
validi, e non girotondi, salterelli ed altre cretinate
sociologiche.
- All’interno di questa impostazione
radicalmente sbagliata (che lo stesso Gramsci in carcere a suo tempo aveva
criticato con grande preveggenza) il problema della cosiddetta “serietà” degli
studi fu consegnato di fatto nelle mani peggiori, cioè delle professoresse
ferocemente classiste della piccola borghesia detta impropriamente “umanistica”
(in realtà non umanistiche, ma disumane), più correttamente definite in uno
studio dell'epoca le “vestali della classe media”. Queste professoresse (con
sparuto contorno di qualche professore) affrontarono la Scuola Media Unica nel
modo peggiore, in base alla categoria del declassamento, del livellamento e del
peggioramento degli studi. Si aprì così a metà degli anni Sessanta quello spazio
di schizofrenia culturale per cui la pedagogia ufficiale era improntata ad una
sorta di facilismo socializzatore mentre la pratica delle vestali della classe
media era improntata ad una mistica della bocciatura dei nuovi piccoli plebei
riottosi.
- Nello spazio di questa schizofrenia
irruppe alla fine degli anni Sessanta il decisivo libro Lettera ad una
Professoressa del prete toscano don Lorenzo Milani. A quel tempo una
bellissima canzone di Lucio Dalla, intitolata Caro amico ti scrivo diceva
fra l’altro: “Anche i preti potranno sposarsi/ ma soltanto a una certa età”.
Contro questa tendenza libertaria don Milani sosteneva che un insegnante doveva
essere celibe, per potersi dedicare completamente all’educazione. Non vorrei
insistere troppo su questo orrore antropologico. Esso è giustificato dal fatto
che don Milani decise in modo estremistico (ed io apprezzo sempre il momento
unilaterale di verità che c’è in ogni estremismo, che ha poi sempre tempo di
farsi mediare in modo moderato una volta fatto passare come plausibile il suo
principio ispiratore) di opporsi alla bocciomania reazionaria delle vestali
della classe media. Non fu certo colpa sua se questo su benemerito intervento
diventò uno dei primi manifesti ideologici del cattocomunismo italiano e del suo
populismo irrefrenabile. Mentre don Milani era per una scuola esigente e
difficile, appunto perché sapeva perfettamente che gli umili non sarebbero mai
stati poi in grado di riscattarsi, il “milanismo” cattocomunista ne fece la
bandiera del facilismo, del voto unico, del voto politico sempre sufficiente,
della socializzazione sistematicamente preferita all’apprendimento disciplinare.
Questa tragicommedia, di cui ovviamente il prete toscano precocemente scomparso
non fu per nulla colpevole, sta alle radici della negazione del momento
disciplinare dell’insegnamento, che vedremo in azione ad esempio
nell’ispirazione del poi fallito concorsone Berlinguer del 2000, il cui rifiuto
corale da parte degli insegnanti segnò anche il momento di svolta nella crisi
del progetto scolastico del personale politico e sindacale di origine PCI, come
ricorderò più avanti.
- A questo punto ritengo necessario introdurre un breve inciso. Si usa in modo un po’ sconsiderato
parlare di questo tipo di cultura populistico-pedagogica in termini di Marx e di
marxismo, o meglio di sciagurata egemonia del marxismo. Personalmente, ho
dedicato a Marx ed al marxismo almeno due decenni di studi, e mi considero un
conoscitore serio sia della teoria di Marx che della variegata e complessa
storia del marxismo. Ebbene, questo populismo pedagogico, per metà laico ed
anticlericale e per metà cattocomunista, non c’entrano assolutamente nulla con
Marx, erede diretto dell’illuminismo e del romanticismo, e dunque del grande
liceo tedesco dell’Ottocento. La matrice deve essere piuttosto fatta risalire
alla corrente detta dell’operaismo italiano, ed in particolare ai suoi due
elementi costitutivi fondamentali, e cioè il sociologismo e l’economicismo. Ciò
che i non specialisti (e cioè il 98% dei commentatori giornalistici della
storia) credono sia il pensiero di Marx è in realtà un impasto altamente
sgradevole ma anche altamente volatile (e cioè a bassa conservazione) di
sociologismo e di economicismo. Questo è particolarmente chiaro nella questione
scolastica. Per sociologismo intendo l’idea del riassorbimento della cosiddetta
separatezza della scuola nel corpo diretto della società, intesa per di più come
l’estensione spaziale di una grande fabbrica. Per economicismo intendo
l’ossessiva riduzione dell’istituzione scolastica a fornitrice del mercato del
lavoro capitalistico e di controllo del cosiddetto esercito industriale di
riserva. Questo impasto di sociologismo e di economicismo, cui si associa
irresponsabilmente il nome onorato di Marx, è particolarmente evidente nel
cruciale documento cui farò ora riferimento.
- La rivista mensile Il Manifesto (non ancora quotidiano) pubblica nel suo
numero 2, febbraio 1970, delle Tesi sulla Scuola firmate a sei mani da
Rossana Rossanda, Marcello Cini e Luigi Berlinguer, che sono uno sconcertante
concentrato profetico del futuro quinquennio Berlinguer-De Mauro del 1996-2001.
Vale la pena farvi alcune considerazioni “dialettiche”, che spieghino cioè come
le stesse impostazioni, mutato il tempo storico in cui vennero espresse, possono
rovesciarsi nel loro esatto contrario.
Le Tesi sulla Scuola del 1970
sono un manifesto dell’utopia della descolarizzazione, cioè dell’integrale
fusione del momento educativo e formativo con il momento sociale e politico.
Come tutte le utopie della fusione, si tratta di un fraintendimento radicale e
fatale del fondamento filosofico ed antropologico del comunismo moderno di Marx,
che è un comunismo delle libere individualità autonome e non della fusione
populistica o sociale. Ma qui, se è possibile, vi è un fraintendimento ancora
più grave. Qui non si capisce neppure la ragione per cui i fondatori della
scuola moderna, dal 1780 al 1830, ebbero ben chiaro il concetto per cui la
scuola non doveva “rappresentare” o “rispecchiare” la società così com’era (non
importa se in variante statica o movimentistica, di destra o di sinistra,
eccetera), ma doveva costituire un momento relativamente separato. Questa
separatezza, lungi dal rappresentare un ritardo conservatore da colmare,
rappresentava una garanzia inestimabile di autonomia dalle pressioni dirette ed
immediate dell’economia e della politica. Per usare il linguaggio delle scienze
sociali moderne, i governi cambiano, le mode culturali cambiano ogni decennio,
le cosiddette esigenze del mercato del lavoro mutano con i conseguenti profili
professionali richiesti, le pressioni giornalistiche mutano, eccetera, mentre la
scuola come istituzione non può e non deve correre dietro a tutti questi
inevitabili mutamenti sociali, ma deve dotarsi di una sua temporalità autonoma
in cui strutturare il momento educativo. Confluivano in questa razionale
concezione di separatezza (ovviamente relativa) il razionalismo illuministico e
l’idealismo romantico. La scuola è infatti il luogo della paideia,
dell’educazione dei sentimenti e della ragione, ed il distacco prospettico dalla
società così com’è è la precondizione ottica per non farsi assorbire e succhiare
dentro una contemporaneità che poi è anch’essa fasulla, perché è un tempo che
scorre e scompare istantaneamente. Tutto questo, ovviamente, non impedisce un
riformismo scolastico anche radicale nei cambiamenti delle materie, dei metodi
di insegnamento e negli assi culturali. Impedisce soltanto una impossibile
antropologia della fusione dell’individuo con la società, fusione che viene
invocata sempre in nome della comunità (di volta in volta religiosa,
nazionalistica o proletaria, eccetera), laddove rende proprio impossibile ogni
costituzione vera di comunità, perché una comunità reale è composta da
individualità libere ed autonome.
- Abbiamo così individuato il difetto che a mio avviso sta nel manico, ed il manico era tenuto
saldamente in mano da quell’ispirazione culturale sessantottina che era del
tutto egemone presso quella categoria di intellettuali-massa prevalente
nell’insegnamento elementare, medio e secondario. Le dinamiche della
costituzione dell’intellettualità universitaria sono diverse, in quanto hanno a
che fare con la costituzione della parte inferiore dei ceti dominanti, e non con
la parte superiore dei ceti dominati. Questo dà luogo ad una tipica situazione
di scissione simbolica fra Noi e Loro che non deve essere ridotta a semplici
questioni di stipendio (in questo contesto del tutto secondarie, anche se pur
sempre significative, perché non si vive di aria e nei negozi bisogna pagare),
perché hanno a che fare non solo con il cosiddetto prestigio dello status
sociale, ma con l’accesso ai media e con il diritto ad essere ascoltati. E’
chiaro a tutti, ad esempio, che il diritto di un magistrato ad essere ascoltato
dall’opinione pubblica è mille volte superiore al diritto di un insegnante a
veder compreso il proprio punto di vista. La macchina spocchiosa del
giornalismo, ad esempio, equipara il lamento dell’insegnante alla mormorazione
plebea dell’operaio, identificato con un inesistente Cipputi. Tutto questo,
purtroppo, non è innocente, perché rinsalda nell’insegnante quelle
caratteristiche negative del risentimento, del rancore, dell’invidia che sono
tipiche di ogni plebeismo regressivo ed impotente.
- Vorrei però tornare ancora sulla questione del rapporto fra il
Sessantotto e la scuola per evitare ogni possibile equivoco nel lettore. Ho già
detto che considero pienamente legittima e giustificata la polemica di don
Milani contro le vestali della classe media bocciatrici e nostalgiche della
precedente e presunta (ma largamente fittizia ed inesistente) “alta qualità”,
identificata con l’esclusione della plebe dai santuari della cultura. Certo, mi
permetto contestualmente un rilievo da “tecnico” dell’insegnamento, in favore
del disciplinarismo e contro il sociologismo, ma questo non ha nulla a che
vedere con la cosiddetta “nostalgia reazionaria”, che proprio non mi appartiene.
Nello stesso modo, non ho nulla a che vedere con l’ampia letteratura che
condanna il cosiddetto “facilismo” scolastico del Sessantotto, per cui i
sessantottini, già studenti pigri divenuti professori incompetenti, inaugurarono
una scuola facile e dequalificata e finirono con il distruggere la povera scuola
italiana. Non sono assolutamente d’accordo con questa diagnosi superficiale. Non
nego che ci sia stata una sorta di ondata di “facilismo”, di esami collettivi su
programmi inesistenti, di voti unici e di voti politici grotteschi e scandalosi,
eccetera. Ma questo fa parte di un folklore contestativo del tutto
congiunturale, e che durò solo pochi anni, ed in modo molto ineguale da posto a
posto. Le radici del “facilismo”, infatti, vengono dalla testa, non dalla coda.
Vengono dalla classe dominante, non dalla classe dominata, indipendentemente
dalla falsa coscienza con cui le “promozioni allegre” erano decretate da
insegnanti che la mitologia reazionaria vuole ad ogni costo capelluti,
spinellatori e femministe assatanate. E’ questo un punto decisivo da capire.
- Il “facilismo scolastico”, ammesso che esso esista veramente, è parte integrante di un processo di sovranità esclusiva
dell’economia e dei mercati finanziari che tende a togliere ogni valore legale,
definito “corporativo”, a qualunque titolo assegnato per meriti culturali o
politici, e dunque anche ad un titolo di studio, che intenda sfuggire alla
decisione monopolistica ed esclusiva dell’impresa. Il punto finale, ovviamente
irraggiungibile, di questa tendenza, sta nell’idea che solo l’impresa potrà
decidere chi è diplomato e laureato e chi no. Questo implica una scuola più
difficile (a livello generalmente post-laurea di master) per i candidati a far
parte dei gruppi dirigenziali e della classe dominante economico-finanziaria, ma
anche una scuola più facile per tutti coloro che dovranno limitarsi a posizioni
esecutive. E’ il modello della scuola elementare e media americana. E’ il
modello culturale che Lucio Russo individua nel suo ottimo libro Segmenti e
Bastoncini, pubblicato da Feltrinelli. Non cadiamo dunque in equivoci sul
“facilismo”, confondendo l’inconsapevole esecutore sessantottino e contestatore
con la vera tendenza strutturale e storica.
- Il “facilismo”, il sei politico, i todos caballeros (e se sono tutti
caballeros, ovviamente, nessuno è veramente caballero) avevano ovviamente una
ideologia, ma questa non era il pensiero di Marx, quanto una sorta di
russovianesimo caricaturale. Il suo motto, di fronte a qualunque insuccesso
scolastico, comportamentale e caratteriale dello studente pigro, infingardo e
furbacchione, era sempre: “La colpa non è dell’individuo, la colpa è della
società”. Questo motto deresponsabilizzante, lo ripetiamo ancora, accompagnato
talvolta ad una rapida integrazione freudiana alla moda per cui la colpa era
anche un po’ di un eventuale complesso di Edipo non risolto, accompagnava senza
saperlo la tendenza principale della facilizzazione e della dequalificazione
scolastica, che veniva dall’alto e non dal basso, come ho cercato di chiarire
nel precedente paragrafo 14.
- 16 La comprensione di
quanto andiamo dicendo può essere migliore se studiamo rapidamente alcuni
comportamenti tipici del ventennio 1975-1995 da due parti, la parte degli
studenti e la parte degli insegnanti. Sarebbe ovviamente necessario un
inquadramento storico generale più completo, ma ragioni di spazio lo
impediscono. Per questa ragione mi limiterò a richiamare l’attenzione, per
quanto riguarda gli studenti, al fenomeno ventennale delle occupazioni, anzi
delle Okkupazioni, e per quanto riguarda gli insegnanti, alla fuga dalla
cattedra verso il sindacalismo scolastico, i centri pedagogico-didattici dei
formatori distaccati, ed altri luoghi di vario parassitismo in cui fu coltivato
il ceto che avrebbe poi dovuto garantire la linea Berlinguer (per l’attuale
linea Moratti, come vedremo, le cose stanno in parte diversamente, perché qui
l’incontro fra l’aziendalismo dominante ed il pedagogismo cattolico dominato
avviene senza la mediazione del ceto parassitario e distaccato dei sindacalisti
CGIL Scuola).
- Cominciamo dal fenomeno delle occupazioni, anzi delle Okkupazioni. Si tratta di un rito politico annuale
stabile, dalla durata variabile fra una settimana ed un mese, rigorosamente
prenatalizio, che cominciò a svilupparsi intorno al 1975 e durò trionfalmente
fino a Fine Secolo (prescindo qui dal suo attuale uso strumentale
antiberlusconiano manipolato dai berlingueriani sconfitti). Vissuto con fastidio
dalla maggior parte degli insegnanti come interruzione della loro attività
didattica regolare, e vissuto con ludica gioia dagli adolescenti appena usciti
dalla scuola media come momento carnevalesco di casino generale adolescenziale
consentito ed annullamento del potere paterno (già ampiamente indebolito da
tendenze sociali ben più forti), il fenomeno della Okkupazione non ha a mio
avviso mai ricevuto l’attenzione che meritava. Gli ottimisti hanno sempre detto
che si trattava di qualcosa di positivo, perché così gli studenti potevano
mostrare direttamente la loro soggettività e potevano anche trarne i loro primi
rudimenti di educazione politica (di sinistra, naturalmente). I pessimisti
invece vi hanno visto uno dei tanti sintomi, sia pure secondari rispetto al
sesso, alla droga ed al rock-and-roll, del Tramonto dell’Occidente, della Caduta
dei Valori, e della Mancanza di Rispetto. Vorrei pregare qui il lettore di non
lasciarsi andare frettolosamente a scegliere uno fra i due estremi
interpretativi qui indicati. Le Okkupazioni sono a mio avviso qualcosa di più
significativo. Si tratta di un vero e proprio rito preventivo di depotenziamento
della serietà della politica e della cultura, e pertanto di una sorta di
vaccinazione precoce, per cui politica e cultura vengono di proposito praticate
ed incontrate in un quadro di irresponsabilità ludica proclamata ed
istituzionalizzata. Al di là del folklore ben descritto da scrittori scolastici
di romanzi grotteschi come Domenico Starnone, in cui compaiono le macchiette da
Commedia dell’Arte dei bidelli incazzati per lo sporco, di presidi terroristi
e/o rassegnati, e della vasta gamma tipologica di insegnanti, l’Okkupazione è
stata (ed è, dove sopravvive, ma non è certo che possa sopravvivere al vero
aziendalismo sopravvivente) un rito sociale consentito. Consentito, lo ripeto,
per essere svuotato e neutralizzato. Si è trattato, a mio avviso, proprio di
quella “tolleranza repressiva” di cui parlò a suo tempo Marcuse, e di uno dei
fenomeni più feroci e cinici contro la gioventù mai messa in atto da generazioni
di adulti mercuriali ed opportunisti.
- Passando a parlare di insegnanti, l’insegnante è qualcuno che ha la vocazione professionale
di insegnare, e non solo qualcuno che deve fare questo lavoro per ripiego e per
necessità. Personalmente, sono esattamente 35 anni che insegno (ho cominciato
nel 1967), e questa apparente ovvietà mi è molto chiara. Certo, questo non
esclude altre vocazioni, come quella dello scrittore, del ricercatore, del
politico, dell’artista, eccetera, vocazioni provvidenziali, perché impediscono
almeno in parte la deriva bambinistica, adolescenziale, paternalistica e
maternalistica insita in questo lavoro. Qui voglio soffermarmi un attimo sul
fenomeno psicologico e sociologico di “fuga dall’insegnamento” di una parte
della generazione sessantottina, perché questa fuga dall’insegnamento sta alla
base di alcuni fenomeni del quinquennio Berlinguer-De Mauro. Io non credo
affatto che l’insegnante sia una figura sociale particolarmente “frustrata”,
come si dice spesso, e credo anzi che questa presunta onnipresente
“frustrazione” sia un luogo comune che gli insegnanti si ripetono per
autocommiserazione rituale, e che gli altri gli sputano addosso per inchiodarli
alla loro subalternità. In trentacinque anni di insegnamento, io non mi sono mai
sentito frustrato dalla mia professione, ma semmai da altri fattori del tutto
diversi, come l’incorreggibile stupidità ed incapacità di trasformarsi del
decadente comunismo storico novecentesco, e come l’impermeabilità spocchiosa e
pigra dei suoi orrendi ceti intellettuali.
Ho fatto questa premessa sul “mito
della frustrazione” per inquadrare il fenomeno della “fuga dall’insegnamento” di
figure culturali molto specifiche. In primo luogo, c’è la fuga verso
l’università dei più ambiziosi ma anche spesso dei più dotati culturalmente sul
piano della ricerca e della originalità della proposta interpretativa. Questa
fuga è normale, e non la condanno certo moralisticamente. Il professore
universitario è pagato di più, lavora meno, e gode di un maggiore prestigio
sociale, oltre ad essere legittimato come produttore originale di cultura
(laddove l’insegnante medio è inchiodato socialmente ad un ruolo subalterno di
dilettantismo o al massimo di generoso volontariato). In secondo luogo, c’è la
fuga verso il sindacalismo scolastico, paradiso protetto per tutti coloro che
sono privi di vocazione professionale all’insegnamento ed hanno invece la
vocazione impiegatizia e dirigenziale per la manipolazione amministrativa. In
terzo luogo, c’è la fuga verso la galassia di istituti di formazione (CIDI,
IRSSAE, eccetera). Un tempo si diceva: chi sa, fa, chi non sa, insegna. Non è
sempre così per tutti i cosiddetti “formatori”, ma la mia ricca esperienza più
che trentennale mi ha fatto toccare con mano che la percentuale fra i formatori
di cattivi insegnanti è anormalmente alta. Si tratta di qualcosa che deve essere
spiegato.
- L’ideologia spontanea del formatore è
il pedagogismo, cioè la deformazione concettuale che tende a ridurre al minimo
il contenuto disciplinare e nello stesso tempo ad enfatizzare le modalità
didattiche di trasmissione dei contenuti. Il pedagogismo non deve essere confuso
con la pedagogia, che è invece una cosa seria, e con tutte le discipline
psicologiche e sociali che l’accompagnano. Lo stadio ultimo, ed incurabile, del
pedagogismo è il didatticismo, cioè l’ingegneria pedagogica maniacale. Il
momento terminale del didatticismo coincide con l’abolizione virtuale della
disciplina, e con il suo scioglimento in tecniche asfissianti di analisi
esasperata di parti sempre più piccole.
Se abbandonato a se stesso, oppure
se è preso sul serio, il didatticismo può uccidere l’educazione e
l’insegnamento. Si tratta dunque di un nemico mortale. Ma la sua debolezza
culturale è talmente ridicola che esso è anche sempre poco più di una mosca
fastidiosa, che può essere allontanata distrattamente con la mano. In 35 anni di
insegnamento della filosofia e della storia l’ho sempre fatto senza problemi.
Naturalmente, il didatticismo non deve essere confuso con la metodologia della
trasmissione dei contenuti (pensiamo alle scienze naturali, oppure alle lingue
straniere), che è invece una cosa legittima e seria. Il didatticismo, invece, è
concettualmente affine alla manipolazione politica, e questa è la ragione per
cui generalmente tende ad attrarre irresistibilmente i cattivi insegnanti. Lo
ripeto, il didatticismo è fastidioso, ma anche innocuo. Può diventare invece
pericolosissimo, se il partito didattico va al potere a livello governativo.
Questo è stato appunto lo scenario del quinquennio bestiale Berlinguer-De Mauro.
Ancora una volta, non bisogna stupirsene. Non bisogna dimenticare mai che è il
capitalismo finanziario globalizzato (con le sue propaggini nazionali) che deve
e vuole smantellare la scuola di tipo illuministico, ed i ceti
pedagogico-didattici di manipolatori non sono che esecutori secondari,
indipendentemente dalla falsa coscienza con cui ricoprono questo ruolo.
- Le osservazioni fatte nei paragrafi precedenti
servono per inquadrare meglio le linee ispiratrici del nefasto quinquennio
Berlinguer-De Mauro (1996-2001). L’avvento al potere del ceto sindacale CGIL
Scuola, con il suo codazzo di pedagogisti pazzi ammiratori dei videogiochi,
sindacalisti governativi e ceto politico PCI-PDS-DS, deve essere collocato in un
contesto storico controrivoluzionario di eccezionale durata e profondità.
Rimando qui il lettore, per ulteriori informazioni, a due pubblicazioni della
CRT Editrice di Pistoia, il lavoro collettivo Metamorfosi della Scuola e
soprattutto il libro-denuncia di Massimo Bontempelli, L’agonia della scuola
italiana. Il ceto politico descolarizzatore guidato da Luigi Berlinguer si
fa portatore del cosiddetto progetto di “autonomia scolastica”, una forma di
aziendalizzazione della scuola gestita in condominio con il ceto
sindacal-politico dei formatori e degli aggiornatori didattici della galassia
CGIL-DS. La polpa avrebbe dovuto essere l’aziendalizzazione legata al cosiddetto
“territorio” (ideologia geografica che sostituisce il precedente stato
nazionale), e la buccia il didatticismo come ideologia di gestione. Le due
vittime principali avrebbero dovuto essere la funzione nazionale della scuola
(incompatibile con il monetarismo finanziario ed europeistico del ceto degli ex
comunisti corrotti riciclati in rappresentanti politici delle classi dominanti)
ed in secondo luogo il disciplinarismo, cioè la serietà degli studi. Ovviamente,
tutto questo non aveva nulla a che fare con l’eguaglianza. Semplicemente la
diseguaglianza era posta a livello di master, cioè di superpagamento familiare
privato. Come si è detto, il modello americano.
- E’ comunque necessario capire che Berlinguer agisce solo come servo
sciocco e subalterno di tendenze storiche e culturali che egli non domina e
probabilmente neppure capisce, perché la cultura dello storicismo togliattiano,
con il suo progressismo ed il suo giustificazionismo storico apologeta dei
vincitori, non è in grado di fargli capire la sua funzione strutturale ed
oggettiva. Nello stesso tempo il cinico baffetto sprezzante D’Alema conduce la
guerra del Kosovo del 1999 per conto di Clinton e dell’impero americano. Questi
due “modernizzatori” non si rendono probabilmente neppure conto della loro
funzione storica. Ma questo non deve essere ragione di giustificazione, ma di
ulteriore disprezzo.
- Potremo definire l’ispirazione del progetto di riforma berlingueriana della scuola “aziendalismo
burocratico”. Non si tratta di un compromesso fra due principi opposti ed
incompatibili. Si tratta di un’ispirazione apertamente aziendalistica che ci si
propone di far gestire dalla burocrazia politico-didattica dei formatori
CGIL-DS. La prima cosa da fare per costoro era l’introduzione di gerarchie
stipendiali nella scuola. Non basta infatti ai modernizzatori che vi sia un
ventaglio di retribuzioni sulla base di ore aggiuntive, di mansioni particolari
e di lavoro straordinario. Bisogna rompere quel profilo, vecchio di due secoli,
che sottraeva la scuola alla cultura aziendalistica, ed occorreva introdurre in
nome della “meritocrazia” una gerarchia di retribuzioni differenziate.
Ovviamente, la meritocrazia nella scuola era sempre esistita, solo che si era
sempre manifestata nella costellazione informale della stima e del prestigio dei
buoni insegnanti. Una quantificazione “meritocratica” è di fatto impossibile, e
comunque sconsigliabile, come se fosse possibile pagare in modo differenziato
gli insegnanti sulla base del loro insegnamento di Kant o delle derivate. Lo
stesso parametro del “successo scolastico” degli studenti non sarebbe infatti
per nulla “oggettivo”, perché non dipenderebbe quasi per nulla dalla qualità
dell’insegnamento, ma dall’ambiente sociale e dalle motivazioni dello studente,
due fattori totalmente incontrollabili da parte del corpo insegnante (come la
mia lunghissima esperienza mi ha sistematicamente mostrato). Eppure, in modo del
tutto ideologico, Berlinguer volle introdurre a forza questo aberrante
principio, che per due secoli era sempre stato saggiamente evitato.
- Nacque così la fatale idea del concorsone
meritocratico a test e a quiz, con cui gli insegnanti avrebbero dovuto essere
“differenziati” per circa mezzo milione di lire di stipendio in base al
superamento di questo concorsone. Come ho detto nel precedente paragrafo, questa
idea sarebbe stata sbagliata anche nel caso che la differenziazione
meritocratica fosse stata compiuta in base a conoscenze disciplinari (in
matematica, in filosofia, in inglese, eccetera). Questo avrebbe creato un clima
di ostilità, gelosia, maldicenza fra gli insegnanti, a discapito della loro
collaborazione benevola e volontaria, su cui si fonda la vita scolastica. Ma il
principio berlingueriano era ancora più aberrante, perché non era neppure di
tipo disciplinare, ma era congegnato in base alla padronanza di una
pseudo-scienza pedagogico-didattica, una neolingua orwelliana provocatoriamente
antidisciplinare. Il lettore immagini che in un ospedale i chirurghi, i
cardiologi ed i pediatri vengano differenziati salarialmente non sulla base di
competenze chirurgiche, cardiologiche o pediatriche, ma sulla base di un gergo
amministrativo estraneo alle loro discipline. Ma il lettore non deve stupirsene,
perché non c’è qui solo in ballo la cialtroneria del ceto sindacale distaccato
dall’insegnamento reale, ma il vero e proprio odio antidisciplinare di cui in
precedenza ho segnalato le radici ideologiche profonde.
- Il più grande sciopero spontaneo di insegnanti della storia della scuola
italiana seppellì questo progetto di cialtroni distaccati. Fu anche la fine vera
del progetto Berlinguer. Gli insegnanti salvarono se stessi in nome del loro
mestiere, non certo in nome di una contestazione ideologica di estrema sinistra
(COBAS, eccetera). Nella più generale crisi dell’Ulivo, destinata a sfociare
nella crisi elettorale del 2001, la bancarotta del berlinguerismo mostrò che la
via dell’aziendalismo burocratico era sbarrata.
- L’attuale cambio della guardia con Letizia Moratti non significa
certamente l’abbandono della via aziendalistica. Al contrario, il berlusconismo
professa una ideologia ancora più aziendalistica e strumentale (ad esempio le
tre ‘I’, impresa, inglese, informatica). Nell’ideologia berlusconiana, il
privato è per definizione aprioristica migliore del pubblico, e la stessa
introduzione dei “buoni scuola” è motivata con la giustificazione demagogica per
cui anche i poveri potranno accedere alle scuole private, considerate da
Berlusconi migliori di quelle pubbliche. Argomento grottesco e controfattuale,
se pensiamo che le scuole private sono in massima parte diplomifici
dequalificati riservati a pigri patologici ed a figli di papà
analfabeti.
- L’epoca Letizia Moratti rappresenta
una sconfitta tattica notevole per il ceto di pedagogisti futuristi alla
Maragliano-Vertecchi e per il ceto sindacale CGIL-DS. Ma ovviamente non
rappresenta una svolta nella concezione privatistica della scuola, anche se il
furore anti-disciplinare ne viene attenuato, a causa della maggiore esperienza
dei pedagogisti cattolici, infinitamente più saggi e professionali dei
distaccati futuristi della leva politica CGIL-DS.
- Tenuti nel dicembre 2001 a Roma, gli Stati Generali della Scuola di
Letizia Moratti cominciano ad evidenziare una possibile (ed auspicabile e
provvidenziale) linea di frattura fra le due correnti principali dei vincitori,
l’ala cattolica e l’ala aziendalistica. Fra queste due ali, ovviamente, l’ala
cattolica è la meno pericolosa, perché è la più radicata in una lunga esperienza
educativa concreta.
- Il contesto ideologico in cui
nel 2002 (e presumibilmente negli anni seguenti) verrà discussa in Italia la
questione scolastica formerà grosso modo un quadrilatero. In primo luogo, vi
sarà l’estrema sinistra egualitaria, anticapitalista e fortemente ideologizzata,
per cui la scuola è pur sempre solo un comparto di un presunto (ed a mio avviso
per ora inesistente) movimento del general intellect contestativo e
rivoluzionario (i COBAS di Bernocchi ne sono a mio avviso la punta dell’iceberg
più visibile). In secondo luogo, c’è l’esercito degli aderenti e dei
simpatizzanti CGIL-DS. Nella scuola questo è un esercito molto numeroso,
tatticamente per ora sconfitto, ma con le forze quasi intatte. Non è realistico
aspettarsi da costoro nessun vero ripensamento e nessuna vera autocritica, in
quanto l’ideologia pedagogico-didattica ed il rifiuto del disciplinarismo non è
in loro un incidente di percorso, ma è la manifestazione di una più generale
concezione manipolatoria dell’insieme sociale. In terzo luogo, c’è la galassia
cattolica, che si porta a casa il buono-scuola e l’appoggio alle scuole di
preti, pretini e pretoni, ma che non si trova neppure a suo agio
nell’aziendalismo confindustriale e nel privatismo d’impresa berlusconiano. In
quarto luogo, c’è l'ala scopertamente aziendalistica, forte fra i giornalisti,
imprenditori e politici, ma debole “sul campo”, cioè nella scuola.
- In questo contesto, è difficile (ed anzi impossibile) fare
previsioni. La sola cosa che si può dire è che l’epoca Moratti è diversa
dall’epoca Berlinguer. Se nell’epoca Berlinguer il nemico principale erano i
cialtroni didattici ed antidisciplinari, nell’epoca Moratti il nemico principale
sono diventati gli aziendalisti estremisti. Non si può condurre un conflitto con
i piani di battaglia del conflitto precedente.
Costanzo Preve
QUESTO ARTICOLO
E' STATO SCRITTO DAL PROFESSORE COSTANZO PREVE PER LA RIVISTA "COMUNITARISMO"
(GENNAIO-APRILE 2002)