Il Covile |
Viene indicata qui una condotta morale. Una nuova via. Un modo per uscire dalla situazione umiliante in cui versa l’architettura, a causa del movimento moderno e postmoderno. È una piccola voce che dolcemente vi sveglierà, nel cuore della notte.
In modo obiettivo e sintetico, possiamo descrivere l’odierna idea di architettura, che in varie forme domina dal 1920, come l’ “attuale teoria corrente e di tendenza dell’architettura”.
Negli ultimi 15 anni molte critiche sono state mosse a questa teoria, che ha dimostrato di avere molte e pesanti lacune. È ora ragionevole pensare che tale teoria sia vicina al crollo.
La crisi della teoria può essere sintetizzata nei seguenti punti:
Nonostante queste difficoltà, che rivelano il collasso imminente della teoria, questa viene ancora studiata in varie facoltà di architettura, e in molte è posta al centro degli studi. La distanza tra la teoria stessa e la sua capacità di rispondere a questioni importanti è così profonda che in alcune università, come il Dipartimento di Architettura di Berkeley, si assiste a disperati tentativi di puntellare la teoria.
Come per qualsiasi paradigma vicino al collasso, molti giovani professionisti sono via via consci della possibilità che l’intera teoria sia priva di senso.
Questa rivista ha deciso di pubblicare le seguenti considerazioni, che aprono la via ad una teoria completamente differente.
Ho iniziato a scrivere questo articolo circa un anno fa. Nel febbraio 1990 Tom Fisher scrisse un editoriale molto critico nei confronti del principe Carlo d’Inghilterra. Ricevetti una telefonata da una rivista londinese, che mi chiedeva un commento sull’editoriale. Risposi con una lettera molto polemica e la inviai per fax; venne pubblicata dalla stampa londinese.
La lettera chiamava in causa direttamente Tom Fisher, e lo criticava, in modo forse anche troppo personale. Dopo poche ore, pensai che Tom meritasse di ricevere una copia della mia lettera. Così, più per correttezza che per altro, la inviai anche a lui, non aspettandomi che Progressive Architecture (PA) la pubblicasse. Con mia sorpresa pochi giorni dopo mi chiamò al telefono per dirmi che aveva intenzione di pubblicare la lettera. Devo dire che la cosa mi colpì molto. Non avrei mai immaginato che avesse il coraggio di pubblicare qualcosa che lo attaccava personalmente. Dimostrava coraggio e lo ammirai per questo. Gli chiesi perché avesse deciso di pubblicarla: mi rispose che in parte era per onestà intellettuale, in parte perché era ben scritta ed in parte perché, dopo averla letta, pensava che potessi anche aver ragione.
L’onestà di quest’ultima affermazione mi piacque. Sentii la possibilità di un reale confronto sul significato dell’architettura.
PA pubblicò la mia lettera sul principe Carlo nel maggio 1990. Pochi mesi dopo Ziva Freiman, una redattrice della rivista, venne a trovarmi con la richiesta di uno scritto più lungo, che sviluppasse le idee espresse nella lettera. Ci incontrammo nello studio della mia casa. Mi chiese a cosa stessi lavorando.
Sedevo nel mio studio, cercando di rispondere. Gary, Randy ed io stavamo lavorando su dei blocchi di cemento da utilizzare per un edificio nella Sierra. Stavo studiando questi blocchi. Stavamo costruendo delle casseforme, gettando il cemento, mescolando colori, creando tagliole nei blocchi. Il cemento serve per creare questi blocchi: blocchi massicci che costituiscono la base dell’edificio. Nei blocchi vi sono delle incisioni, in cui si possono inserire dei sottili frammenti di marmo.
Il cemento è pesante. Puoi sentirne il peso. Non solo quando lo sollevi — ciascun blocco pesa circa 90 kg — ma lo senti anche nel cuore. È come una gravità emotiva. Significa qualcosa, sappiamo che significa qualcosa. Il significato è in noi, e nel blocco.
È meraviglioso riflettere su questi blocchi. Prepararsi a costruire con essi. Pensare all’edificio e a come si formerà.
Cos’è questo — questa attività? È una cosa antica, una cosa seria, niente a che fare con ciò che oggi chiamiamo architettura.
Qualcosa di completamente diverso dalla architettura delle riviste e dalla odierna professione.
Mi avete inviato gli ultimi due numeri di Progressive Architecture. Li ho sfogliati. Penso che, anche se avessi sfogliato gli ultimi 12 numeri, in ogni pagina, difficilmente avrei trovato una sola pagina, una sola cosa che potesse avere qualcosa in comune con ciò che stavamo facendo con questi blocchi.
Eppure questi blocchi rappresentano ciò che l’architettura realmente è.
L’affermazione suona arrogante. Ma è solo triste. Potete chiedermi come posso essere certo di non aver frainteso uno o l’altro dei lavori pubblicati e illustrati in Progressive Architecture. Avete ragione, non posso esserne certo. Forse ci sono una o due cose, non molto chiare, dove il significato non viene espresso molto chiaramente. Ma si tratta al più di poche pagine. La cosa orribile è che sono abbastanza certo, come lo siete voi, che il 98 per cento della rivista — se non tutta — è semplicemente qualcosa d’altro.
Qualcosa che ha a che fare con l’immagine, l’autocelebrazione, il denaro.
Pertanto la professione dell’architetto non soffre solo per una teoria che fallisce nell’affrontare i grandi problemi che dovrebbe risolvere — le undici questioni indicate nella prima pagina.
La situazione della professione, bisogna ammetterlo, è francamente ripugnante: gli architetti hanno sostenuto una teoria fallimentare usando l’immagine, il potere e il denaro. La professione dell’architetto ha abbandonato la propria forza morale. È stata, essenzialmente, costretta a far parte dell’ingranaggio di Madison Avenue, una macchina di denaro e immagine. Così la più grande fra le arti — che si può definire come la madre delle arti, o la più vicina agli uomini — fallisce nel risolvere in modo onesto ed utile i problemi teorici e pratici — e oltretutto è svenduta dai suoi stessi praticanti.
Da qui deriva la ferita che i giovani architetti percepiscono oggi. Sapere che la loro integrità è compromessa. Sapere che nel loro cuore c’è qualcosa che ha a che fare con gli edifici veri, con l’amore del cielo, le pietre, il legno, la felicità... ma che si sono venduti per disegnare in uno studio di architettura, che a sua volta si è venduto nel disegnare per un costruttore.
Non va meglio quando il committente è pubblico, tipo un ente o una università. Non fa molta differenza, se si è venduta l’anima ed il disegno è la merce di scambio. Ciò che si è perso, ed è il motivo per cui molti giovani architetti si sono arresi, e si stanno chiedendo che cosa ne sarà di loro, non è il cliente, non è l’obiettivo esteriore, ma l’obiettivo interiore, il senso di autostima, la sensazione di essere felici e nel giusto con le proprie azioni.
È fastidioso pensare a ciò? Ci si comporta come se la risposta fosse impossibile. O forse è meglio, più comodo, non pensare a questo?
Pochi mesi fa ho visto un film notevole sul canale pubblico: Lettera alla prossima generazione. Un film di 90 minuti, nel quale il regista si descriveva come un sessantottino e dialogava con studenti dell’Università dell’Ohio. Molti degli studenti manifestavano il materialismo tipico degli anni 90. Dicevano di non essere interessati a questioni profonde o fondative — la cosa principale che desideravano era il successo, la sicurezza di un buon lavoro una volta usciti dall’università. Erano bravi studenti, piuttosto sicuri di sé.
Lui — il regista — non era pedante. Non faceva il moralista, nel corso del programma illustrava il suo punto di vista. Dialogando con gli studenti, poneva garbatamente delle domande, spiegando come ciò di cui loro discutevano non avesse senso per lui. Lui voleva approfondire le grandi questioni, non tanto il loro futuro lavorativo.
Così dialogava molto serenamente. Gradualmente, gli studenti si mostravano sorpresi. Durante il corso dei 90 minuti, gettò i semi del dubbio. Iniziarono a dubitare di loro stessi. Loro — ed il regista — si sorpresero nel pensare a degli anni 90 diversi. Che l’autocompiacimento di avere lavoro, benessere, successo — non fosse tutto.
Al termine del film sorgeva il dubbio. Si percepiva che le cose stavano cambiando, è impossibile continuare in tale follia. Che il denaro non trionferà, che la gente si sveglierà di nuovo, facendosi domande, cercando qualcosa di più profondo. Ma in maniera dolce.
Questo è ciò che mi piacerebbe fare nel mio pezzo per PA — qualcosa di gentile nei toni, molto gentile — ma capace di portare le persone, meravigliandosi, ai loro sensi. Un sussurro che farà dubitare dell’immagine compiaciuta in cui stiamo vivendo e che viene presentata sempre in questa rivista e in tutte le riviste di architettura da almeno due o tre decadi.
Una nuova vita per l’architettura, una nuova vita per gli architetti.
Ziva mi chiese: “Cosa puoi dirmi di questi blocchi. Perché sono così importanti. Esprime una tua convinzione?” “No, non è questo. Molti artisti del XX secolo erano convinti del loro operato. E anche molti postmoderni, forse. Sono sicuri del loro operato. Compiaciuti. Soddisfatti, impegnati, deliziati dal fatto di formare un movimento, un gruppo. Ma tutto ciò non ha nulla a che fare con il cuore. Solo con il denaro. La differenza tra un cuore veramente felice e sentirsi appagati in Madison Avenue [1] .”
“Dimmi, voglio conoscere ciò in cui credi. Qual è il nome della cosa?” le chiesi. “Te lo stavo per chiedere io” rispose. Sorrisi. “Io lo so. Ma lo sto chiedendo a te.”
“Qualcosa riguardo la moralità.”
Poi, dopo un lungo silenzio disse: “Forse qualcosa di biblico.” Un altro silenzio. “Un uomo giusto.”
Ero stupito. Non me lo aspettavo. Significava che i miei sforzi, dopo tutti questi anni, iniziavano ad essere ascoltati, e che anche le persone che non credevano in ciò che volevo realizzare in architettura fossero così confuse da dubitare, chiedendosi se dopo tutto non ci fosse uno straccio di verità in ciò che affermavo.
Sono stato isolato per molto tempo. Non è stata una mia scelta. E, ritengo, non è stata neanche una scelta dei professionisti o delle riviste di architettura.
Allora perché è successo?
È a causa della differenza di paradigma. Non è una frase fatta, a effetto. È la verità. Ciò che faccio è così differente in ogni minimo particolare, che è difficile da comunicare a parole. Dato che è differente, anche se si prova e riprova con termini diversi, è impossibile da comprendere all’interno della professione odierna. Questo è il motivo dell’isolamento.
Ma questa solitudine non è un bene per la professione. E non è un bene per me.
Voglio descrivere meglio le pietre — questi grandi blocchi di cemento che stavamo realizzando. Avevamo fatto dei getti in cemento. Erano pietre massicce, circa 60 per 45 per 15 cm. Sarebbero state poi realizzate sul posto, dentro casseforme, e posate una o due file per volta, legate da calcestruzzo armato e gettato tra i blocchi.
Ogni blocco può essere sagomato con incisioni per inserire degli intarsi in marmo, che realizziamo volta per volta a seconda delle esigenze della costruzione. I blocchi si possono utilizzare per costituire ingressi, archi, finestre, davanzali, ornamenti, ecc. ...
Fare questo è un po’ come scavare un fossato. C’è una connessione alla realtà che è di grande aiuto in ogni fase: nel camminare sul sito, nel parlare col committente, nella preparazione della costruzione, nel parlare con gli operai, nel pensare agli ornamenti, nel lavorare sulle strutture. Si tratta sempre della stessa cosa, ad un livello di realtà fisica che rende l’esperienza completamente differente, utile, tanto da sentire la vita, il respiro, l’amore.
Realizzare questi blocchi, pensare a come utilizzarli per la costruzione, è differente dal realizzare disegni di particolari costruttivi, allo stesso modo in cui mangiare del cibo è differente dal guardare foto su una rivista di cucina.
Questa è la reale forza morale del costruire. Ma sfortunatamente il processo del costruire, come lo conosciamo oggi, è qualcosa di molto differente. Riviste come PA, gli architetti, il denaro dei costruttori hanno contribuito a creare una immagine completamente diversa del costruire.
Mio obiettivo è uscire da questa situazione: per chiarire il significato del costruire, per liberare gli architetti dall’immagine mentale creata per loro.
Questo è il nocciolo della questione. Vi sono migliaia di architetti che hanno dato la vita per l’architettura, che vogliono fare qualcosa di meraviglioso, e stanno realizzando solo ora che l’attuale organizzazione della professione rende ciò impossibile. Sono sorpresi. Cosa fare al riguardo? È forse inevitabile passare la vita su un tavolo da disegno nella pretesa di essere dei creativi, ma rendendo il mondo più brutto e falso, nascondendo la consapevolezza di questa situazione terribile nella finzione di migliorare il mondo, nella finzione che questo tipo di architettura nutra il mondo.
Ciò che ne deriva, alla fine, ha aspetti pratici. È possibile oggi vivere e lavorare nel modo che auspico? È possibile in tal modo costruire edifici? Il mio è un modello attuabile da tutti gli architetti?
Possono l’atteggiamento sviluppato e il modo di costruire descritto essere usati per le abitazioni private? Per gli edifici pubblici? Possono utilizzarsi per grandi progetti abitativi? E per gli arredamenti e gli interni?
Il senso di disperazione provato dagli architetti è nel fatto che il sistema — cioè il modo in cui l’architettura viene praticata, è integrale, auto alimentato, derivante da un corpo coerente di pensiero, pratica e azione. Anche quegli architetti interessati a ciò che affermo, non vedono via d’uscita da questa intrigata situazione.
Fare ciò che ho fatto comporta rischi, e ne derivano cambiamenti importanti.
All’età di otto anni ho costruito la mia prima struttura in cemento: una pista per le macchinine. L’ho costruita come meglio potevo. E nei primi anni 70 volli diventare costruttore — che significa, legalmente, possedere una licenza [2] da general contractor.
Iniziai dalla gavetta. Avevo poca più esperienza in ciò di qualsiasi altro architetto, formato alle facoltà di architettura attraverso disegni e disegni. Ma sapevo che costruire non significa nient’altro che far funzionare l’edificio nel suo complesso, e iniziai così da autodidatta. Cominciai con alcuni mobili: passai poi a un piccolo edificio, utilizzando un sistema costruttivo da me ideato; e poi arrivai a lavori più impegnativi, quasi sempre sperimentali. Del lavoro mi piaceva che progredendo nella costruzione si poteva passare dall’invenzione di dettagli costruttivi al funzionamento strutturale dell’edificio.
Più tardi, alla fine degli anni 70, ho unito le forze con Gary Black, architetto ed ingegnere strutturista, che aveva appreso il mestiere di costruttore nell’impresa del padre in Florida e concepiva il fare architettura nel mio stesso modo. Si unirono a noi anche Hajo Neis, che allora aveva uno studio di architettura in Germania. Sia Gary che Hajo erano stati miei allievi. Poi ancora: Ingrid King, Artemis Anninou, Carl Lindberg, Eleni Coromvli... e molti altri. Creammo uno studio professionale cercando di darci una nuova organizzazione rispetto al precedente Center for Environmental Structure — ora volevamo sviluppare questo lavoro come un’impresa — ma senza essere coinvolti in modo sbagliato dal denaro. Volevamo un’impresa no profit, che avesse come motivazione principale la costruzione dell’armonia. L’essenza del progetto era fare l’edificio, piccolo o grande che fosse.
E comunque dovevamo sempre rendere l’edificio “vivo”. Era previsto che fosse il cliente a definire la propria abitazione, giocando un ruolo positivo nella progettazione. Questo arriva all’essenza della persona. Il centro del processo è educare, aprire una porta per consentire al cliente di esprimersi, per aiutarlo a vedere nel proprio cuore, considerando sempre l’animo umano più di qualsiasi altra cosa.
Nel corso degli anni ho sentito affermazioni simili (circa l’animo umano) da parte di molti. Kahn è solito parlare, a sproposito, di cose simili. Ma se osservate gli sterili blocchi e triangoli nei lavori di Kahn, vi rendete conto che non sa cosa dice. Forse solo nel Museo di Fort Worth vi si avvicina. Le Corbusier era solito parlarne. Ma anche lui non ne conosceva il significato. Si tratta solo di retorica, un modo affascinante di esprimersi, di costruire mentalmente, per non vergognarsi del proprio operato e poter poi considerare le realizzazioni a un livello più elevato di quanto realmente valgano.
Dare attenzione al cuore dell’umanità significa permettere alle cose di essere. Molta architettura, al giorno d’oggi, non consente alla cose di essere — al contrario impone una visione del mondo fanatica e ottusa — spesso, temo, una visione del mondo verbosa, sterile e dominata dal denaro.
Torno al problema di come fare architettura. Alla base di tutto, è necessario un sistema che aiuti a comprendere il mondo. Cioè una visione della realtà, dello spazio e della materia, che includa l’idea di anima. Per venti anni ho cercato — come scienziato — di comprendere una descrizione dell’universo come luogo in cui possono sorgere organismi viventi. E per fare ciò, per dare un senso a tutto questo, ho dovuto costruire una descrizione della realtà in cui viene modificato tutto ciò che conosciamo.
Quando si riflette a fondo su questo, si comprende che non possiamo biasimare solo noi come architetti. A tradire se stesso non è stato solo il mondo degli architetti e dell’architettura. Il fatto è che, all’interno di una visione meccanicistica dello spazio e della materia — considerata oggi normale da tutti — è inevitabile che l’architettura diventi superficiale ed insignificante.
In The Nature of Order ho tentato di esplorare questi problemi, e ho trovato una descrizione dello spazio e del tempo che dà senso alle cose, che mostra cosa significa per lo spirito essere in qualcosa, che mostra come il sentimento sia inevitabilmente integrato nel progetto — e che la materia stessa, intesa come sostanza divina, ci mostra cosa fare quando cerchiamo di rendere vitale il pomello di una porta, una finestra, o l’intero progetto dell’edificio. Questo diventa chiaro perché deriva da una visione completamente differente del mondo.
Questa teoria è connessa all’ecologia e al rispetto per la natura. Ma in fondo, anche la rivoluzione ecologica è meccanicistica nel modo in cui guarda il mondo, tanto da creare quella arbitrarietà che vediamo nei cosiddetti edifici “ecologici”.
La realtà è più profonda e più seria. E anche più umana.
Il rispetto per i viventi non sta solo nel rispetto per le piante, i fiumi e le specie in via d’estinzione. È rispetto per noi stessi, rispetto per l’animo umano, per il nostro vulnerabile, patetico, meraviglioso cuore. È un’architettura allora da cui emerge la voce del cuore — non una imitazione, non un affare, non un mondo dominato da gente che cerca di fare soldi con gli immobili — ma qualcosa che piace a me, nel mio intimo, e a voi nel vostro, e a qualsiasi bambino — tanto da non dover mai dire: “Lasciate che vi spieghi. Non avete capito…” finendo così nell’artificio, nella menzogna che imbelletta oggi la nostra architettura.
Smentire queste falsità dipende in gran parte dalle riviste di architettura. Come avrete notato, Progressive Architecture — come la maggior parte delle riviste — non si domanda come realizzare cose migliori, o come realizzare cose belle. Per lo più, non si pone alcuna domanda su questioni importanti. Costituisce un luogo per l’autoglorificazione del singolo architetto, di colui che porta avanti il programma dell’epoca. Si ottiene la pubblicazione del progetto e questo rinforza l’idea che tutto vada per il meglio.
Se PA vuole cambiare realmente — se la pubblicazione della lettera del Principe Carlo e la sua attività hanno creato un precedente — se i nuovi editori di Progressive Architecture riconoscono sinceramente che l’imperativo morale non è più evitabile, che devono aiutare il mondo ad uscire da questa epoca dominata dal denaro — allora la strada può risultare molto facile. Si tratta di permettere un reale confronto su questo ordine di problemi. Chiarire che lo scopo della rivista è quello di consentire a tutti noi, architetti, costruttori, artisti, di formare una comunità in cui porsi domande su come operare meglio, su come costruire edifici più belli — su come fare edifici e città più vitali. Ogni volta che vedete un edificio, ponetevi la domanda più difficile. Chiedetevi se è buono, nel senso pieno del termine — virtuoso, utile alla vita, utile alla vita dell’uomo sulla terra.
Questa è la questione principale, a cui tenere in modo particolare. La rivista non è una vetrina dove esporre la propria mercanzia, ma un luogo in cui confrontarsi, cercare risposte, lavorare verso un’esistenza migliore. È semplice. E credo che Progressive Architecture abbia preso la decisione — almeno in parte — di andare in questa direzione. Il che sarà utile ed importante per tutti noi.
Nelle foto alle pagine xx — xx sono riportate alcune immagini di recenti lavori del Center for Environmental Structures (CES): edifici progettati e costruiti da me insieme ai miei collaboratori.
Fra queste molte riguardano il campus scolastico di Eishin [3] a Tokio. Mostrai immagini simili a New York circa un anno fa, ad un seminario della Cooper Union in cui Herzberger ed io eravamo invitati a parlare nel corso della serata. Ken Frampton era tra il pubblico, e fece alcuni interventi interessanti nel dibattito che seguì. Ebbi l’impressione che le sue affermazioni fossero abbastanza comprensive nei miei confronti, tenendo conto dei nostri differenti punti di vista. Ma più tardi, in privato, Frampton mi disse: “La parte migliore è il lago — non ti pare — gli edifici non sono in realtà una parte importante.” Tra le righe, molto cortesemente diceva: “Guarda, questi edifici kitsch sono veramente ridicoli — ma il lago è delizioso.” In effetti, stava cercando di dire che gli edifici erano troppo romantici e tradizionali — come poteva trattarsi di architettura seria… — e così liquidava la cosa parlando d’altro. “… il lago è molto carino, è la parte migliore,” e così via.
Ma è proprio questo modo cinico e sbrigativo, che cerca di disprezzare o umiliare la bellezza con la motivazione che “non è vera architettura”, che è la più folle e distruttiva caratteristica dell’architettura moderna degli ultimi cinquanta anni. Qui arriviamo al nocciolo della grande truffa, delle concezioni inventate riguardanti spazio, volume, stile, e che erigono criteri immaginari considerati “verità”, ma verità che è completa finzione, non connessa all’interiorità umana ma solo alle regole estetiche, artificiali, di un’élite di progettisti.
Con la denigrazione, con una sottile violenza, tanto l’architettura moderna quanto la postmoderna hanno sorretto la loro ideologia. Il postmoderno (ed il moderno in precedenza) è alla fine così debole, così lontano dal contatto con ciò che è onesto e buono, che tenta di nascondere la sua debolezza, e affermare la propria importanza, demolendo tutto ciò che anche solo lontanamente lo minaccia.
Sono certo che Ken Frampton sia una persona seria. Non credo che il suo comportamento sia stato voluto, probabilmente è uno dei teorici che al giorno d’oggi più si è spinto nel pensare che qualcosa può non funzionare nel sistema. Ma anche lui, nonostante le sue intuizioni, è imprigionato in questa rete di menzogne riguardo ciò che è reale, ciò che sentiamo vero, e ciò che produce senso in architettura (da un punto di vista intellettuale sono solo menzogne — perché volutamente distorcono il panorama delle nostre sensazioni e le sostituiscono con qualcosa di falso). Nel nostro dialogo a New York, Frampton stava cercando, a mio avviso, di evitare un confronto con il problema di fondo — le forme estreme in architettura sono state già prodotte — non dobbiamo creare, intenzionalmente, qualcosa di particolare per affermare “Sono un architetto”. Non poteva accettare la bellezza dei nostri edifici giapponesi perché non erano originali: e pertanto ai suoi occhi non potevano essere considerati seriamente parte dell’ “Architettura”. Stupidità tronfia, che scambia ciò che è buono con ciò che è cattivo. Fa apparire la spazzatura importante, e insignificante tutto ciò che è importante.
E perché? Per quale motivo Frampton, o qualsiasi altro architetto, dovrebbe essere così attento a nascondere la verità? Per una ragione molto semplice. Perché, se qualcosa di così diretto e semplice fosse bello e di valore, allora l’intero programma del movimento moderno e postmoderno diventerebbe sospetto, e potrebbe crollare.
Guardate le magnifiche travi reticolari, ad arco, che abbiamo realizzato per l’edificio principale in Giappone. L’edificio con le sue reticolari è bello. Non si può negare, non in questo caso. Ma è difficile uscire dal dogma, ripetuto più e più volte per il lavaggio del cervello: questo non è bello, per essere un architetto devi essere originale, un po’ freddo, privo di colore, aspro e morbido. Ma soprattutto non devi fare nulla che faccia sentire le persone veramente a proprio agio (questo detto sotto voce, o del tutto non detto, ma implicito sotto la superficie, tra le righe).
Vi porto un altro esempio. In questo articolo, trovate la foto di alcune piastrelle realizzate da me nel 1986. Ho creato queste piastrelle per l’Università dell’Oregon (si trattava di un concorso tra artisti per realizzare alcuni progetti nel campus universitario). Partecipai con la realizzazione di queste piastrelle, che dovevano servire come ornamento per un muro di cinta. Venti proposte sarebbero state scelte. Pensavo di non poter fallire. Sicuramente sarei stato tra i venti. Ma invece tutti i progetti premiati avevano quella originalità tipica del moderno e postmoderno. Dimostravano tutti di essere validi, “architettonici” e così via. Le mie piastrelle, perché semplici e sinceramente belle — quasi ordinarie — non si potevano qualificare in quanto troppo imbarazzanti per l’intera commissione giudicatrice e per l’impresa che doveva realizzare l’edificio (Charles Moore con Ratcliffe).
Per questo stiamo lottando. Contro la perdita dell’innocenza, che porta ad elevare l’immondizia a qualcosa di utile, facendovi gonfiare d’orgoglio perché siete architetti, ma rifiutando ciò che è semplice e bello, pieno di sostanza e sentimento.
Ultimamente va così male che le persone — gli architetti — non sanno proprio più far uscire dal loro cuore le cose belle e semplici — sono presi completamente dall’orgoglio, sviati da schemi, concetti, teorie che li portano a voler dimostrare come siano esperti, abili nel produrre falsità senza bellezza, abilità che fa guadagnare visibilità sulle riviste e l’occupazione di una cattedra nelle migliori università.
La domanda fondamentale è molto semplice. Potete (o possiamo) creare una cosa bella? Possiamo creare una bella finestra? O una magnifica porta? Possiamo realizzare uno spazio bello davanti un edificio? O realizzare un magnifico volume per una costruzione?
Ciò è tutto quello che occorre chiedersi. Non occorrono spiegazioni chilometriche. Provate semplicemente a fare un oggetto bello, e in modo graduale la giusta direzione si rivelerà da sola, con la propria forza.
Ma cosa significa “bello”? Significa che la cosa fa cantare sinceramente il mio cuore. Mi fa provare gioia, nella mia totalità. Mi fa sentire più unito al mondo, più completo come persona. Mi fa provare qualcosa di gioioso, come l’arrivo della primavera.
Certo, non c’è nulla di più difficile al mondo che realizzare un edificio con questa qualità. Occorre provare tutta una vita. Io fallisco continuamente, in ogni momento, prima di arrivare ad una riuscita. È incredibilmente duro. Ma è incredibilmente prezioso. Quando ottengo ciò, e anche quando non lo raggiungo, mi sento felice. Ed il prodotto finale rende le persone interiormente felici, felici di essere alla presenza di questa bellezza.
Ora provo a delineare, a grandi linee, le caratteristiche di un nuovo approccio all’architettura, che superi i problemi della teoria corrente, e contenga la possibilità di risolvere i dilemmi pratici e morali della pratica attuale.
Le considerazioni più importanti:
Alla fine, in particolare, questo nuovo approccio porta ad una nuova forma di architettura, come si può vedere anche negli esempi realizzati di recente dal CES.
Non è un programma sociale o un’idea mentale, ma una visione dell’architettura che porta ad uno stile e a risultati differenti, ad una differente idea di bellezza, ad un differente criterio per valutare il successo e infine ad un’attenzione rinnovata per la vita in ogni aspetto — la vita e le emozioni dell’umanità, ma anche la vita e le emozioni delle pietre e dei materiali, degli edifici stessi, il tutto in unione con la natura: ma che è soprattutto una nuova forma artistica, che parla il linguaggio della vita reale come i suoi soggetti e plasma lo spazio con questo spirito. Lo spirito dell’arte, come la forma degli edifici, è espressione religiosa — anche se non ha relazione con nessuna religione in particolare. Si occupa delle cose belle — dove la bellezza non è quella compresa da pochi architetti in modo specialistico ed eccentrico — ma dove la bellezza è quella intesa dal senso comune, quello a cui pensiamo quando vediamo il sorriso sul viso di una persona o la bellezza di un campo fiorito.
Data la situazione, e visto che lo scopo morale del nostro lavoro di architetti è divenuto così confuso, provo ora a delineare i punti essenziali che, come in una sorta di giuramento di Ippocrate, qualsiasi architetto in futuro potrà adottare come un credo:
Discutendo su questo manifesto, Tom mi ha detto cose interessanti. Ha parlato riguardo al Dasein — l’essere qui. L’idea di un sentimento semplice ed elementare. L’esperienza di essere qui, Heidegger. Questo è ciò che l’architettura deve cercare di conseguire, e di rendere più intenso.
Le emozioni contagiose di un mio intervento ad un film-festival. Ciò che emozionò le persone fu l’idea, da me espressa, che esiste un oceano di sentimenti e sensazioni che condividiamo, e che in larga parte proviamo le stesse cose. Certo, abbiamo le nostre sensazioni personali e le nostre idiosincrasie individuali, che rendono ognuno di noi unico. Ma questa è solo una piccola parte, la cresta dell’onda, in un oceano di sentimenti e sensazioni che condividiamo. È questo oceano comune su cui si fondano il linguaggio dei pattern (modelli, vedi The Pattern language), la natura dell’ordine (vedi The Nature of Order), e i miei edifici: arrivano a quel sentimento che abbiamo in comune, che fa di tutti noi un corpo unico.
Tom accennò che al tempo di Socrate venne riconosciuta l’individualità alla persona, mentre prima veniva enfatizzato il sentimento comune, quella parte enorme di sentimenti e sensazioni che ci rende un corpo o una comunità. Il che indica un modo possibile di essere.
Apocalypse di D. H. Lawrence nasce dallo stesso punto di vista. Lawrence descrive un tempo, e un modo di essere, in cui eravamo direttamente connessi al sole ed alla luna, dove i nostri sentimenti elementari rappresentavano la cosa più importante, ed erano perfettamente consapevoli.
F. R. Leavis. Quando ero a Cambridge, Leavis teneva un corso; la cosa sorprendente di queste lezioni, la cosa scioccante, era che insisteva non sull’aspetto estetico del romanzo, non era questo che doveva venire ammirato o apprezzato, ma la sottostante forza morale, l’attitudine alla vita, la modalità di vita, che venivano descritte, suggerite, in cui ci si immergeva. Questo per noi era sconvolgente, dato che si percepiva il valore del lavoro sulla base del valore artistico: suggerire che fosse il suo valore morale suonava retorico e sciocco.
Ancora, è stato il lavoro di Leavis ad esaltare gli scritti di D. H. Lawrence, in particolare per la visione della vita di Lawrence, che è essenzialmente su un piano più elevato rispetto la forza morale di altri scrittori contemporanei, come Hemingway — il quale pur attraverso scritti notevoli per stile e forza non presenta una pari forza morale. Queste opinioni di Leavis all’epoca sembravano sconvolgenti, ora mi sembrano corrette e naturali.
L’approccio di Ziva Freiman alla contemporanea questione dell’architettura — è proprio così, nella stessa posizione. Lei sta chiedendo prima di tutto una forza morale, che possa costituire le fondamenta dell’architettura. È questo che è stato perso, e che deve essere ora rinnovato, o forse trovato per la prima volta.
Tom ha osservato anche come la recente teoria del decostruttivismo in architettura sia l’ultimo aspetto del nichilismo. Ciò che Nietzsche mostra è un nichilismo che non può andare da nessuna parte. Mentre Heidegger indica la via per un nuovo ordine morale basato sull’ “essere” e l’ “essere qui.” Il decostruttivismo è come il nichilismo, non può andare da nessuna parte, è semplicemente la fine di una linea — mentre nei lavori che i miei colleghi ed io abbiamo realizzato sembra esserci qualche speranza.