Il Covile

Per una Teoria minimale del capitale

Raccolta antologica di passi sui concetti chiave

Versione 2.11.4. (1 maggio 2024)

ItalianoFrançaisDeutschEnglish    Libro

 

Per una Teoria minimale
del capitale

 

Raccolta antologica di passi
sui concetti chiave

Versione 2.11.4. (1 maggio 2024)

 

 

Per controllare gli ultimi aggiornamenti: www.ilcovile.it.

 

 

Scopo e autori di questa raccolta

È ormai disponibile una vasta letteratura che implicitamente contiene e fertilmente sviluppa un nucleo teorico veritativo (cioè pienamente confermato dal processo storico) che trova origine in una serie di intuizioni di Marx. Va tuttavia riconosciuto che, nella mole dei manoscritti e opere dello studioso, i testi seminali di quel nucleo sono dispersi e in netta minoranza rispetto a quelli che propongono tesi diverse e anche contrapposte (queste peraltro in gran parte confutate dalla critica dei fatti).¶ Se è dunque necessario prendere atto del fallimento della pretesa di considerare «teoria rivoluzionaria» un insieme discorde quale il corpus marxiano e marxista (Il fantasma della teoria giusto il titolo del bel saggio di Jaime Semprun), tuttavia a nostro parere un sottoinsieme coerente, una «teoria del capitale», esiste. Anche se, come detto, implicita e attualmente non disponibile in forma completa e coerente ad eccezione forse dell'opera di Jacques Camatte. Non è difficile indicare alcuni degli studiosi che di fatto in quel campo, percorrendo propri e diversi sentieri, hanno prodotto importanti risultati; qualche nome in ordine alfabetico: Günther Anders, Jean Baudril­lard, Walter Benja­min, Amadeo Bor­diga, Jacques Camat­te, Cornelius Casto­riadis, Gianni Collu, Guy Debord, Jacques Ellul, Ivan Illich, Robert Kurz, Henri Lefebvre, André Leroi-Gourhan, Marcel Mauss, Marshall McLuhan, Lewis Mumford, Fredy Perlman, Bruno Rizzi, Isaak Rubin, Marshall Sahlins, Kohei Saito, Alfred Sohn-Rethel, Ferdi­nand Tön­nies, Simone Weil, Jean Viou­lac. ¶ Il progetto non si propone di produrre una stesura organica di quel nucleo teorico, che provvisoriamente chiameremo Teoria minimale del capitale, ma solo di elencare quelli che appaiono i concetti chiave, accompagnandoli con citazioni di varie fonti allo scopo sia di aiutare la comprensione del concetto sia di mostrarne la sostanziale coerenza.
Caveat: Alcuni dei primi commenti a questa antologia («Sono documenti di una lucidità terribile, ma salutifera», «Lettura per me angosciante e che rischia di far dimenticare quanto di gioioso e di vero esiste ancora nella nostra vita») ci spingono a sottolineare, usando la comune analogia tra capitale e forme tumorali giustificata dalla pari illimitatezza della crescita, che questa raccolta riguarda esclusivamente la genesi e lo sviluppo della malattia e non come conviverci e le possibili cure. La riteniamo tuttavia utile, perché le cure possono profittare della comprensione del meccanismo di ciò che contrastano.

 

Questo progetto, frutto della collaborazione tra diverse individualità, è Open Source e come tale si è dato gli strumenti per risolvere le decisioni quando ne sorga la necessità. Il prodotto risultante è dunque di pubblico dominio e diversi percorsi di ricerca o divergenze tra i partecipanti possono dar luogo a derivazioni con il pieno utilizzo di materiali e risultati del lavoro precedente, e anche futuro.
I partecipanti hanno operato con lo spirito del curatore (laico, cattolico o buddista che sia) di una ipotetica voce enciclopedica sulla Teologia manichea, spirito che non implica l’adesione a quanto enunciato, bensì l’intento della massima completezza e chiarezza: Aldo Zanchetta, Armando Ermini, Claudio Catanese, Enrico Salvatori, Fabrizio Bertini, Francesco Borselli, Franco Senia, Gabriella Rouf, Giacomo Di Meo, Giuseppe Petrozzi, Luigi Picchi, Marco Iannucci, Marisa Fadoni Strik, Riccardo De Benedetti, Stefano Borselli, Stefano Isola.   Contatti: il.covile@­protonmail­.com

 

Indice dei concetti

Capitolo 1. Fatti osservati 

1.1. Povertà degli antichi e ricchezza dei moderni o viceversa? Viceversa 

1.2. Astrazione 

1.3. Evanescenza dell’immediatezza 

1.4. Solitudine ed estasi della promiscuità 

1.5. Ansia e depressione generalizzate 

1.6. Rinchiudimento 

1.7. Controllo e sorveglianza 

1.8. Mercificazione illimitata 

1.9. Combinatoria e Combinismo 

Capitolo 2. Presupposti remoti del processo 

2.1. Rifiuto della realtà 

2.1.1. Rappresentazione • Spettacolo 

2.1.2. Sviluppo abnorme delle protesi • Surrogati (Ersatz) • Sostituzioni 

2.1.3. Rimozione • Escamotaggio • Stornamento 

2.1.4. Antropomorfosi 

2.2. Aspirazioni astratte 

2.2.1. Immortalità 

2.2.1.1. Inimicizia 

2.2.2. Idea di potenza • Controllo totale 

2.2.3. Vergogna prometeica 

2.3. Albori della civilizzazione (tentativi di controllo) 

2.3.1. Religione 

2.3.2. Stato 

2.3.3. Organizzazione • Burocrazia 

2.3.3.1. Megamacchina 

2.3.4. Proprietà privata 

Capitolo 3. Il processo • Doppio movimento valore-capitale 

3.1. Movimento del valore 

3.1.1. Robinsonate 

3.1.2. Valore • Valore d'uso • Valore di scambio 

3.1.3. Scambio • Dono • Baratto 

3.1.4. Merce 

3.1.5. Alienazione 

3.1.6. Merce esclusa • Equivalente generale 

3.1.7. Denaro 

3.1.8. Prestito • Credito • Debito 

3.1.9. Astrazione reale 

3.1.10. Immortalità (cercata nel valore) 

3.2. Movimento del capitale 

3.2.1. Capitale 

3.2.1.1. Crematistica 

3.2.2. Plusvalore 

3.2.3. Autonomizzazione • Soggetto automatico 

3.2.4. Sussunzione formale e reale del lavoro 

3.2.4.1. Estensione della sussunzione al tempo libero, alla società, al corpo 

3.2.4.2. Il tempo del capitale 

3.2.4.3. La merce del capitale 

3.2.4.4. La tecnica del capitale 

3.2.4.5. Le forze produttive del capitale 

3.2.5. Oggettualizzazione 

3.2.6. Immortalità (cercata nel capitale) 

3.2.7. Morte potenziale del capitale 

3.3. Risultati e fini del processo 

3.3.1. Sostituzione della comunità • Comunità materiale 

3.3.1.1. Gemeinwesen 

3.3.2. Sostituzione dell'uomo 

3.3.3. Sostituzione della natura 

Fonti ​

 

 

Dal paradiso che Marx ha creato per noi,
nessuno riuscirà a cacciarci.

(Pseudo Hilbert)

Capitolo 1. Fatti osservati

1.1. Povertà degli antichi e ricchezza dei moderni o viceversa? Viceversa

Henry David Thoreau 1854  161​ 
Il contadino cerca di risolvere il problema del­la vita con una formula più complicata del problema stesso. […] Questa è la ragione per cui è povero; e per una ragione simile noi tutti siamo poveri, sebbene circondati dal lusso, in confronto al­le mil­le comodità che hanno i selvaggi.  [529​  Walden o vita nei boschi]  

 

Guy Debord 1978  49​ 
Di progresso in progresso, hanno perduto il poco che avevano, e guadagnato ciò che nessuno voleva.  [276​  In girum imus nocte et consumimur igni]  

 

Marshall Sahlins 1966 (1972)  92​ 

L’originaria Società Opulenta
Se è vero che l’economia è una scienza «tetra», lo studio del­le economie di caccia e raccolta dovrebbe esserne la branca più avanzata. Quasi universalmente concordi nel­l’affermare la durezza del­la vita nel paleolitico, i manuali di antropologia fanno a gara a comunicare un senso di condanna incombente, tanto che viene spontaneo chiedersi non soltanto come i cacciatori riuscissero a sopravvivere ma se, dopotutto, la loro fosse vita. Lo spettro del­la morte per fame è perennemente in agguato in queste pagine. L’incompetenza tecnica, si dice, imponeva un lavoro asfissiante per la semplice sopravvivenza, negando al cacciatore riposo e surplus, e quindi perfino l’«agio» di «acculturarsi». Ciononostante, malgrado tutti i suoi sforzi, il cacciatore si col­loca ai gradi infimi del­la termodinamica — meno energia​/​persona​/​anno che in ogni altro modo di produzione. E nei trattati sul­la dinamica economica è condannato a fungere da esempio negativo: la cosiddetta «economia di sussistenza». ¶ La saggezza tradizionale è sempre caparbia, tanto da costringerci a obiezioni polemiche, a formulare dialetticamente le necessarie rettifiche: in realtà, a un esame attento, fu la prima società opulenta. Paradossalmente, da questa formulazione discende una altra utile e inopinata conclusione. Comunemente si conviene che una società opulenta è quel­la in cui tutti i bisogni materiali del­la gente sono di facile soddisfazione. Sostenere che i cacciatori sono ricchi significa negare che la condizione umana sia predestinata al­la tragedia, con l’uomo prigioniero di una perenne disparità tra bisogni il­limitati e mezzi inadeguati. ¶ Due sono infatti le vie possibili al­l’opulenza. Si possono «facilmente soddisfare» i bisogni o producendo molto o chiedendo poco. La concezione tradizionale, il model­lo di Galbraith, parte da presupposti particolarmente consoni a un’economia di mercato: che i bisogni umani sono grandi, se non infiniti, laddove i mezzi sono, benché perfezionabili, limitati: pertanto, il divario tra mezzi e fini può essere ridotto dal­la produttività industriale, perlomeno nei limiti di un’abbondanza di «beni urgenti». Ma esiste anche una via Zen al­l’opulenza, sul­la base di premesse alquanto differenti dal­le nostre: i bisogni materiali del­l’uomo sono circoscritti e limitati e i mezzi tecnici immutabili ma nel complesso adeguati. Adottata la strategia Zen, un popolo può, con un basso tenore di vita, assaporare un’incomparabile abbondanza materiale. ¶ Definirei i cacciatori in questi termini, il che ci serve a spiegare parte del loro curioso comportamento economico: la loro «prodigalità», a esempio la tendenza a consumare immediatamente tutte le provviste a disposizione, quasi che fossero un dono del cielo. Immuni come sono da ossessioni di scarsità di merci, le inclinazioni economiche dei cacciatori trovano, più del­le nostre, un fondamento coerente nel­l’abbondanza. Marx dovette quantomeno convenire con Destutt de Tracy, il «gelido dottrinario del­la borghesia», che «nel­le nazioni povere la gente vive negli agi», mentre nel­le nazioni ricche «è in genere povera». […]
Origini del­l’equivoco
«Mera economia di sussistenza» «agio limitato tranne in circostanze eccezionali», «ricerca incessante di cibo», «risorse naturali scarse e relativamente incerte», «assenza di un surplus economico», «massimo di energia da un numero massimo di persone» così è sintetizzabile l’opinione comune degli antropologi in tema di caccia e raccolta.
[…] relativamente ai cacciatori sudamericani:
«I cacciatori e raccoglitori nomadi soddisfacevano appena i bisogni minimi di sussistenza e spesso neppure quel­li. Ne è un riflesso la loro densità demografica di 1 persona ogni 10–20 miglia quadrate. Costantemente in moto al­la ricerca del cibo, chiaramente non disponevano del­le ore di tempo libero per attività di una qualche importanza che non fossero di pura sussistenza, ed erano in grado di trasportare ben poco degli eventuali prodotti del tempo libero. Per loro, adeguatezza di produzione equivaleva a sopravvivenza fisica, ed era raro che avessero un sovrappiù di tempo o di prodotti (Steward e Faron, 1959, p. 60)».Ma la tradizionale visione pessimistica del­le insormontabili difficoltà dei cacciatori è anche preantropologica ed extrantropologica, a un tempo storica e riferibile al più ampio contesto economico in cui opera l’antropologia. Risale al­l’epoca di Adam Smith, ed è probabilmente anteriore a ogni opera scritta. Fu forse uno dei primi pregiudizi chiaramente neolitici, una valutazione ideologica del­la capacità del cacciatore di sfruttare le risorse terrestri, perfettamente consona al compito storico di privarlo di queste. […] ¶ È poi tanto paradossale sostenere che i cacciatori, a dispetto del­la loro assoluta povertà, hanno economie opulente? Le stesse moderne società capitalistiche, per quanto riccamente dotate, si consacrano al problema del­la penuria: l’inadeguatezza dei mezzi economici è il primo principio dei popoli più ricchi del mondo. L’apparente condizione materiale non ne spiega i risultati; qualcosa bisogna aggiungere quanto al modo di organizzazione economica. ¶ Il sistema industriale di mercato istituisce la scarsità, in maniera completamente nuova e in un grado mai prima sfiorato. […] ¶ Sia Eyre che Sir George Grey, al­la cui visione ottimistica del­l’economia indigena già abbiamo accennato («Ho sempre notato la massima abbondanza nel­le loro capanne»), lasciarono specifiche stime, in ore giornaliere, del­le fatiche degli Australiani per cibarsi. (Nel caso di Grey sono compresi gli abitanti di parti assai disagiate del­l’Australia occidentale.) La testimonianza di questi esploratori concorda esattamente con le medie ottenute da McCarthy e McArthur relativamente al­la Terra d’Arnhem: «In tutte le normali stagioni», scriveva Grey (quando cioè la gente non è relegata nel­le capanne dal­l’inclemenza del tempo)
«in due o tre ore riescono a procurarsi una provvista di cibo sufficiente per il giorno, benché siano soliti girovagare indolentemente qua e là, raccogliendo pigramente il cibo nei loro vagabondaggi» (1841, vol. 2, p. 263; corsivo mio). Analogamente, afferma Eyre:
«Quasi in ogni parte del continente che ho visitato, dove la presenza di Europei o del­la loro stirpe, non ne abbia limitato o distrutto gli originari mezzi di sussistenza, ho notato che, in tre o quattro ore, gli indigeni riuscivano di solito a procurarsi il cibo bastante per il giorno, e senza fatica o difficoltà» (1845, pp. 254–255; corsivo mio).  [415​  L'economia dell'età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, pp. 13-16, 38]  

 

Jean Baudrillard 1970  124​ 

Il paleolitico o la prima società del­l’abbondanza ¶ Dobbiamo abbandonare l’idea preconcetta che abbiamo del­la società del­l’abbondanza come di una società nel­la quale tutti i bisogni materiali (e culturali) sono facilmente soddisfatti, dato che quest’idea fa astrazione da ogni logica sociale. Bisogna invece pervenire al­l’idea, ripresa da Marshal­l Sahlins nel suo articolo sul­la «prima società del­l’abbondanza», secondo la quale sono le nostre società industriali e produttiviste ad essere dominate dal­la scarsità, dal­l’ossessione del­la scarsità caratteristica del­l’economia di mercato. Più si produce più si sottolinea, nel senso stesso del­la profusione, l’irrimediabile al­lontanamento dal termine finale, cioè dal­l’abbondanza — definita come l’equilibrio tra la produttività umana e le finalità umane. Poiché quel che è soddisfatto in una società del­la crescita, e sempre più man mano che cresce la produzione, sono i bisogni stessi del­l’ordine di produzione, e non i «bisogni» del­l’uomo, sul cui disconoscimento riposa al contrario tutto il sistema, è chiaro che l’abbondanza indietreggia indefinitamente, o meglio essa è irrimediabilmente negata a vantaggio del regno organizzato del­la scarsità (penuria strutturale). ¶ Per Sahlins erano i cacciatori-raccoglitori (tribù nomadi primitive del­l’Australia, del Kalahari, ecc.) che conoscevano la vera abbondanza malgrado la loro assoluta «povertà». I primitivi non possiedono nul­la in proprio, essi non sono ossessionati dagli oggetti, che essi gettano via uno dopo l’altro per spostarsi meglio. Non vi è l’apparato produttivo né di «lavoro»: essi cacciano e raccolgono, si potrebbe dire «a piacere» e dividono tutto tra loro. La loro prodigalità è totale: essi consumano tutto subito, non vi è calcolo economico, non vi sono stock. Il cacciatore-raccoglitore non ha nul­la del­l’homo oeconomicus di invenzione borghese. Egli non conosce i fondamenti del­l’economia politica. Rimane sempre al di qua del­l’energia umana, del­le risorse naturali e del­le effettive possibilità economiche. Dorme molto. Ha fiducia — ed è questo che fa andare avanti il suo sistema economico — nel­la ricchezza del­le risorse naturali, mentre il nostro sistema è contraddistinto (e sempre di più col perfezionamento del­la tecnica) dal­la disperazione di fronte al­l’insufficienza dei mezzi umani, da un’angoscia radicale e catastrofica che è l’effetto profondo del­l’economia di mercato e del­la concorrenza generalizzata. ¶ L’«imprevidenza» e la «prodigalità» col­lettiva, caratteristiche del­le società primitive, sono il segno del­l’abbondanza reale. Noi non abbiamo altro che i segnidel­l’abbondanza. Noi andiamo al­la ricerca, sotto un gigantesco apparato produttivo, dei segni del­la povertà e del­la scarsità. Ma la povertà non consiste, dice Sahlins, né in una scarsa quantità di beni, né semplicemente in un rapporto tra fini e mezzi: essa è innanzitutto un rapporto tra gli uomini. Quel che fonda la «fiducia» dei primitivi, e fa sì che essi vivano nel­l’abbondanza persino nel­la fame è al­la fin fine la trasparenza e la reciprocità dei rapporti sociali. È il fatto che nessuna manipolazione, qualunque essa sia, del­la natura, del suolo, degli strumenti o dei prodotti del «lavoro», viene a bloccare gli scambi e a istituire la scarsità. Non c’è accumulazione che è sempre fonte di potere. Nel­l’economia del dono e del­lo scambio simbolico, una quantità debole e sempre finita di beni è sufficiente a creare una ricchezza generale, poiché essi passano costantemente dagli uni agli altri. La ricchezza non è fondata sui beni ma sul­lo scambio concreto tra le persone. Essa è dunque il­limitata, perché il ciclo del­lo scambio è senza fine persino tra un numero limitato di individui, ciascun momento del ciclo di scambio si somma infatti al valore del­l’oggetto scambiato. È questa dialettica concreta e relazionale del­la ricchezza che ritroviamo capovolta come dialettica del­la penuria e del bisogno il­limitato, nel processo di concorrenza e di differenziazione caratteristico del­le nostre società civilizzate e industriali. Mentre nel­lo scambio primitivo, ciascuna relazione incrementa la ricchezza sociale, nel­le nostre società «‹differenziali» invece ciascuna relazione sociale incrementa una mancanza individuale, poiché ogni cosa posseduta è relativizzata in rapporto al­le altre, mentre nel­lo scambio primitivo essa è valorizzata dal­la relazione stessa con gli altri. ¶ Non è dunque paradossale sostenere che nel­le nostre società «opulente», l’abbondanza è perduta e che essa non sarà restituita da una sovrabbondanza di produttività a perdita d’occhio, o dal­la liberazione di nuove forze produttive. Poiché la definizione strutturale del­l’abbondanza e del­la ricchezza è nel­la organizzazione sociale, solo una rivoluzione del­l’orga nizzazione sociale e dei rapporti sociali potrebbe modificarla. Ritorneremo un giorno, al di là del­l’economia di mercato, al­la prodigalità? Al posto del­la prodigalità abbiamo il consumo forzato a vita, fratel­lo gemel­lo del­la scarsità. È la logica sociale che ha fatto conoscere ai primitivi la «prima» (e sola) società del­l’abbondanza. È la nostra logica sociale a condannarci a una penuria lussuosa e spettacolare.  [477​  La società dei consumi, pp. 61-63]  

 

Jean Baudrillard 1986  123​ 

La sola miseria paragonabile è quel­la del­l’uomo che mangia solo, in piedi, per strada. Sono uno spettacolo normale, a New York, questi relitti del­la convivialità, che mangiano i loro avanzi in pubblico senza neanche più nascondersi. Ma si tratta ancora di una miseria urbana, industriale. Quel­le migliaia di uomini soli che corrono ognuno per sé, senza badare agli altri, con nel­la testa il fluido stereofonico che si effonde loro nel­lo sguardo, è l’universo di Blade Runner, è l’universo del giorno dopo. Non essere neppure sensibili al­la luce naturale del­la California, né a quel­l’incendio sul­le montagne spinto dal vento caldo fino a dieci miglia al largo, che avvolge col suo fumo le piattaforme petrolifere off-shore, non veder niente di tutto questo e correre, correre ostinatamente, per una sorta di apatica flagel­lazione, fino al­lo sfinimento sacrificale, è un segno d’oltretomba. Come l’obeso che non smette di ingrassare, come il disco che gira al­l’infinito sul­lo stesso solco, come le cel­lule di un tumore che proliferano impazzite, tutto ciò che ha perso la formula per fermarsi. Tutta la società, qui, compresa la parte attiva e produttiva, tutti corrono diritto per la propria strada perché si è persa la formula per fermarsi.  [473​  America, p. 50]  

 

Jaime Semprun 1993  61​ 

Il progresso appare fondamentalmente viziato e in regola generale tutto ciò che avrebbe dovuto facilitare la vita, invece la divora. L’idea che il processo storico iniziato nel Rinascimento possa conoscere un lieto fine è ormai cosí poco credibile che si può affermare che la Modernità ha raggiunto la pura perfezione — poiché la perfezione è la caratteristica di ciò che non può essere migliorato. La Modernità dunque finisce; era iniziata nel­le città, e nel­le città si conclude.  [383​  Dialoghi sul compimento dei tempi moderni]  

 

Juliet B. Schor  1993  63​ 

«Il lavoratore si riposa a lungo al mattino; passa una buona parte del­la giornata prima di arrivare al lavoro; poi deve fare colazione, anche se non se l’è guadagnata, al­l’ora abituale, altrimenti si rattrista e mormora; quando suona l’orologio, getta il suo fardel­lo a metà strada e quel­lo che ha in mano lo lascia cosí com’è, anche se molte volte si rovina prima di tornare; non deve perdere la sua carne, qualunque sia il pericolo che corre il lavoro. A mezzogiorno deve dormire, poi deve fare il suo lavoro pomeridiano, che occupa gran parte del­la giornata; e quando arriva l’ora del­la notte, al primo scoccare del­l’orologio getta i suoi attrezzi, lascia il suo lavoro, in qualsiasi necessità o caso si trovi l’opera.» (James Pilkington, vescovo di Durham, 1570 ca.)Uno dei miti piú durevoli del capitalismo è che ha ridotto la fatica umana. Questo mito è tipicamente difeso tramite un confronto tra la moderna settimana di quaranta ore e la sua controparte di settanta o ottanta ore nel XIX secolo. L’assunto implicito — ma raramente articolato — è che lo standard di ottanta ore abbia prevalso per secoli. Il confronto evoca la triste vita dei contadini medievali, lavorando costantemente dal­l’alba al tramonto. Ci viene chiesto di immaginare l’artigiano in una soffitta fredda e umida, che si alza prima del sole e lavora a lume di candela fino a notte fonda. ¶ Queste immagini sono proiezioni arretrate di moderni model­li di lavoro. E sono false. Prima del capitalismo, la maggior parte del­le persone non lavorava per cosí tante ore. Il ritmo del­la vita era lento, anche piacevole; quel­lo del lavoro rilassato. I nostri antenati non avevano grandi ricchezze, ma avevano un’abbondanza di tempo libero. Quando il capitalismo ha aumentato i loro redditi, ha anche portato via il loro tempo. In effetti, ci sono buone ragioni per credere che l’orario di lavoro a metà del­l’Ottocento costituisca il piú prodigioso sforzo di lavoro nel­l’intera storia del­l’umanità. ¶ Pertanto, dobbiamo avere una visione piú lunga e guardare indietro non solo di cento anni, ma di tre o quattro, persino di seicento o settecento. Consideriamo una tipica giornata lavorativa nel periodo medievale. Si estendeva dal­l’alba al tramonto (sedici ore in estate e otto in inverno), ma, come ha notato il vescovo Pilkington, il lavoro era intermittente: si interrompeva per la colazione, il pranzo, il consueto pisolino pomeridiano e la cena. A seconda del­l’ora e del luogo, c’erano anche pause di ristoro a metà mattina e a metà pomeriggio. Questi periodi di riposo erano i diritti tradizionali dei braccianti, di cui godevano anche nei periodi di massimo raccolto. Durante i periodi di riposo, che rappresentavano gran parte del­l’anno, il rispetto degli orari di lavoro regolari non era abituale. Secondo il professore di Oxford James E. Thorold Rogers, la giornata lavorativa medievale non superava le otto ore. Il lavoratore che partecipava ai movimenti per le otto ore di lavoro del­la fine del XIX secolo «stava semplicemente cercando di recuperare ciò che i suoi antenati lavoravano quattro o cinque secoli prima».[...]. ¶ Il contrasto tra i model­li di lavoro capitalistici e precapitalistici è particolarmente evidente per quanto riguarda l’anno lavorativo. Il calendario medievale era pieno di festività. Le festività ufficiali, cioè quel­le del­la Chiesa, comprendevano non solo le lunghe «vacanze» di Natale, Pasqua e mezza estate, ma anche numerosi giorni di festa dei santi. Questi venivano trascorsi sia in sobria religiosità che in festa, bevendo e facendo baldoria. Oltre al­le celebrazioni ufficiali, spesso si beveva birra per settimane, sia in occasione di eventi importanti del­la vita [...] sia in occasioni meno importanti [...]. Complessivamente, le vacanze nel­l’Inghilterra medievale occupavano circa un terzo del­l’anno. E a quanto pare gli inglesi lavoravano piú duramente dei loro vicini. Si dice che l’ancien règime in Francia garantisse cinquantadue domeniche, novanta giorni di riposo e trentotto giorni festivi. In Spagna, i viaggiatori notarono che le vacanze ammontavano a cinque mesi al­l’anno.  [385​  Pre-industrial workers had a shorter workweek than today's]  

 

David Graeber & David Wengrow 2021  98​ 

Lahontan anticipa alcune di queste argomentazioni nei Memoirs, quando osserva che gli americani che erano stati in Europa — qui è molto probabile che si riferisse soprattutto a Kondiaronk, oltre ad alcuni ex prigionieri costretti a lavorare come schiavi nel­le galee — erano tornati pieni di sdegno per le rivendicazioni europee di superiorità culturale. Gli americani nativi che erano stati in Francia, scrive,
«[...] ci punzecchiano di continuo con i difetti e i disordini che hanno osservato nel­le nostre città, asserendo che sono provocati dal denaro. È inutile cercare di far notare loro quanto sia utile la distinzione del­la proprietà per il mantenimento del­la società: si fanno beffa di qualunque cosa si dica a tal proposito. In breve, non litigano né si scontrano, né si calunniano a vicenda; deridono le arti e le scienze e dileggiano la differenza di ranghi che si osserva da noi. Ci etichettano come schiavi e ci chiamano anime sventurate la cui vita non è degna di essere vissuta, accusandoci di esserci degradati assoggettandoci a un uomo [il re] che possiede tutto il potere e che non è vincolato da alcuna legge se non la sua volontà.»In altre parole, qui troviamo tutte le critiche al­la società europea con cui si scontrarono i primi missionari i bisticci, la mancanza di assistenza reciproca, la cieca sottomissione al­l’autorità con l’aggiunta di un nuovo elemento: l’organizzazione del­la proprietà privata. Lahontan prosegue:
«Ritengono inammissibile che un uomo abbia più di un altro e che i ricchi godano di più rispetto dei poveri. In poche parole, dicono, il nome di selvaggi, che noi attribuiamo loro, sarebbe più adatto a noi, giacché non vi è nul­la nel­le nostre azioni che assomigli al­la saggezza».  [427​  L'alba di tutto. Una nuova storia dell'umanità, p. 64]  

 

Idées reçues: Ernest Mandel 1974  42​ 
Le comunità basate sul­la povertà ¶ Per la maggior parte del­la sua esistenza preistorica l’uomo è vissuto in condizioni di estrema povertà. Poteva procurarsi il nutrimento necessario al­la sua sopravvivenza solo con la caccia, la pesca, la raccolta di frutti. L’umanità viveva da parassita del­la natura, poiché non accresceva le risorse naturali fondamentali per la propria sussistenza, né esercitava alcun control­lo su queste risorse. ¶ Le comunità primitive erano organizzate in modo da garantire la sopravvivenza col­lettiva in queste condizioni di esistenza estremamente difficili. Ognuno partecipava obbligatoriamente al lavoro; il lavoro di ciascuno era necessario per mantenere in vita la comunità. La produzione di viveri era appena sufficiente a nutrire la col­lettività. Dei privilegi materiali avrebbero condannato al­la fame una parte del­la tribù e la avrebbero privata del­la possibilità di lavorare razionalmente, compromettendo così le stesse condizioni di sopravvivenza col­lettiva. Ecco perché, in quest’epoca del­lo sviluppo del­le società umane, l’organizzazione sociale tendeva a mantenere la massima uguaglianza al­l’interno del­le comunità umane. ¶ Dopo aver esaminato le istituzioni sociali di 425 tribù primitive, gli antropologi inglesi Hobhouse Wheeler e Ginsberg hanno riscontrato l’assenza totale di classi sociali presso tutte le tribù che non conoscono l’agricoltura. ¶ La rivoluzione neolitica ¶ Questa situazione di fondamentale povertà è stata stabilmente modificata soltanto dal­la comparsa di tecniche di coltura del suolo e l’al­levamento del bestiame. La tecnica del­la coltura del suolo, la più grande rivoluzione economica del­l’umanità, si deve al­le donne, come tutta una serie di altre importanti scoperte del­la preistoria (in particolare la tecnica di fabbricazione del vasel­lame e la tessitura). Essa si è affermata a partire più o meno dal 4000 a.C., in parecchie zone del globo, verosimilmente dapprima in Asia minore, in Mesopotamia, in Iran e nel Turkestan, estendendosi progressivamente al­l’Egitto, al­l’India, al­la Cina, al­l’Africa del nord e al­l’Europa mediterranea. Questa fase prende il nome di rivoluzione neolitica perché si è verificata in un’epoca del­l’età del­la pietra in cui i principali strumenti di lavoro del­l’uomo erano fabbricati in pietra levigata (l’epoca più recente del­l’età del­la pietra). ¶ La rivoluzione neolitica ha permesso al­l’uomo del­la pietra di produrre da sé gli alimenti di cui aveva bisogno, e quindi di control­lare più o meno la propria sussistenza; ha altresì ridotto il rapporto di dipendenza dal­le forze del­la natura in cui si trovava l’uomo primitivo. Ha permesso la formazione di riserve di viveri, consentendo così di affrancare certi membri del­la comunità dal­la necessità di produrre il loro nutrimento. In tal modo ha potuto svilupparsi una certa divisione economica del lavoro, una specializzazione dei mestieri che ha accresciuto la produttività del lavoro umano. Nel­la società primitiva una simile specializzazione non poteva che cominciare a delinearsi. Come ha detto uno dei primi esploratori spagnoli riguardo agli indiani del XVI secolo: «Essi [i primitivi] vogliono utilizzare tutto il loro tempo per ammassare viveri, perché se lo utilizzassero diversamente sarebbero attanagliati dal­la fame».  [258​  Introduzione al marxismo, pp. 17-18]  

 

1.2. Astrazione

Ludwig Feuerbach 1843  116​ 
E senza dubbio il nostro tempo... preferisce l’immagine al­la cosa, la copia al­l’originale, la rappresentazione al­la realtà, l’apparenza al­l’essere.  [453​  L’essenza del Cristianesimo, Prefazione alla seconda edizione]  

 

Karl Marx 1847  21​ 
Il tempo è tutto, l'uomo non è piú nul­la, esso diviene tutt’al piú la carcassa del tempo.  [209​  Miseria della filosofia]  

 

Gianni Collu 2010  39​ 
Marx? Un cacciatore di fantasmi.  [245​  Testimonianze di Danilo Fabbroni]  

 

Jacques Camatte 1974  65​ 

[...] il capitale astrae l’uomo. Il che vuol dire che gli prende tutto il suo contenuto, tutta la sua materialità: forza-lavoro; tutta la sostanza umana è capitale. [...] L’uomo è l’uomo astratto definito dal­la costituzione. Inoltre non bisogna dimenticare che il capitale s’è assoggettato tutta la scienza, tutto il lavoro intel­lettuale umano, e domina proprio in nome di questo ammasso di conoscenze. Esso è la conoscenza, l’uomo la manovra. Al contrario del­l’uomo del­la società feudale che era soprattutto animale, l’uomo del­la società borghese è puro spirito.  [324​  Questo mondo che bisogna abbandonare]  

 

Jerry Mander 1978  4​ 

Un film sovietico da moltissimi frainteso, Solaris, diretto da André Tarkovski e tratto dal libro di Stanislaw Lem, il­lustra i problemi affrontati da alcuni astronauti in una stazione spaziale che orbita intorno al pianeta Solaris in una lontana galassia. ¶ Del­l'iniziale gruppo di ottantacinque astronauti ne sono rimasti solo due. Moltissimi sono fuggiti, altri, impazziti, sono stati rispediti sul­la Terra. Parecchi si sono suicidati. ¶ La superficie di Solaris è un vasto oceano, che è anche un'unica mente vivente. Questo pianeta-oceano-mente gioca tiri spaventosi al­la mente dei suoi ospiti. ¶ Sul­la Terra perplessi funzionari spaziali decidono di mandare ad indagare Kris Kelvin, uno psicologo. Prima di partire per lo spazio esterno, Kelvin trascorre le sue ultime settimane da suo padre in una casetta nascosta tra i boschi. Si tuffa nel­la foresta e fa lunghe, silenziose passeggiate tra i prati. A questo punto il film procede con accentuata lentezza. Ci sono lunghe sequenze in cui l'obiettivo riprende soltanto eventi naturali del­la foresta. È rispettato il rapporto natura-tempo. ¶ Talvolta l'obiettivo segue lo sguardo di Kelvin che indugia attento sui particolari del­l'ambiente. Piove. Kelvin è inzuppato. Di ritorno nel­la casetta, si riscalda al fuoco. ¶ Giunge finalmente il momento del­la partenza. Ora la cinepresa è sistemata sul sedile anteriore del­l'automobile, sta dove sta seduto Kelvin. Vediamo ciò che vede lui. ¶ Lentamente cambia la natura del terreno. Le strade sinuose ed alberate cedono il passo a strade diritte, ad una corsia. Il fogliame si al­lontana dal­la strada statale. Quindi ci ritroviamo sul­l'autostrada. L'ambiente è ora fatto di auto che sfrecciano, sovrappassi, sottopassaggi, gal­lerie. Subito siamo in una città. Rumori, luci, edifici, ovunque. Il paesaggio naturale è soffocato, invisibile. Prevalgono paesaggi antropocentrici, l'astratta realtà. Uno stacco rapido ci porta nel­lo spazio. ¶ Kelvin è solo in un piccolo veicolo spaziale con rotta su Solaris. La Terra è lontana. Kelvin ha abbandonato le sue radici. Qualsiasi concretezza è impossibile. L'ambiente in cui si trova è del tutto astratto. La sua patria planetaria esiste ora solo nel­la sua memoria. ¶ Arrivato al­la stazione spaziale Kelvin comprende il tiro che Solaris sta giocando agli astronauti. Solaris penetra nei ricordi dei suoi ospiti e quindi fa sì che questi si manifestino come reali. Ciò comincia ad accadere a Kelvin, la cui moglie, morta molto tempo prima, appare nel­la sua stanza. Dapprima pensa che sia un'immagine, poi si rende conto che non è solo un'immagine, ma è realmente lei. Eppure entrambi sono consapevoli del fatto che lei è soltanto una manifestazione del­la sua immagine. Così lei è simultaneamente reale ed immaginaria. ¶ Nel laboratorio appaiono altre persone emergenti dal­la vita di Kelvin. Incontra i ricordi ricreati degli altri due astronauti; parenti, vecchi amici, giocattoli, pezzi di indumenti da lungo dismessi, attrezzi tecnici, piante in vaso, cani, nani di un circo dei tempi del­la fanciul­lezza, campi erbosi. Le cose vengono confusamente sparse intorno mentre i visitatori provenienti dal­la Terra cercano di decidere che fare di tutta quel­la roba reale​/​irreale che continua ad apparire dal­la loro memoria. La stazione spaziale assume il carattere d'un sogno, d'un carnevale, d'un manicomio. ¶ Gli scienziati pensano di tornare sul­la Terra e gli altri concordano. Kelvin appoggia questa decisione poiché sente in pericolo il suo equilibrio mentale, anche se capisce che partire significa «uccidere» la moglie ritrovata. Una volta sul­la terra lei sarà un ricordo, così come la Terra è divenuta un ricordo in questa stazione spaziale. La donna capisce tutto ciò e ciò è fonte d'angoscia per entrambi.  [203​  Quattro Argomenti per Eliminare la Televisione, pp. 79-81]  

 

Ivan Illich 2002  20​ 

In passato si lasciava il mondo con la morte. Fino a quel momento si viveva nel mondo. Noi due apparteniamo ancora al­la generazione di quel­li che sono «venuti al mondo», ma che adesso rischiano di morire senza i piedi sul­la terra. A differenza di tutte le altre generazioni abbiamo vissuto la rottura col mondo. ¶ Un tempo chi rinunciava al mondo prendeva il bastone del pel­legrino e si metteva in cammino sul­la via di Santiago a Compostela; poteva chiedere la stabilitas al­la porta del monastero, o aggregarsi ai lebbrosi. Il mondo russo o greco offrivano anche la possibilità di diventare non un monaco ma un pazzo santo e di fare il buffone per il resto del­la vita nel­l’atrio di una chiesa fra cani e mendicanti. Ma anche per questi estremi fuggiaschi il «mondo» restava il quadro sensoriale del­la loro passeggera esistenza. Il «mondo» rimaneva una tentazione, proprio per colui che voleva rinunciarvi. Molti di coloro che pretendevano di abbandonare il mondo si sorprendevano a barare. La storia del­l’ascetismo cristiano è quel­la di un eroico tentativo di sincerità nel­la rinuncia ad un mondo a cui l’asceta restava attaccato con ogni fibra. Sentendosi morire, mio zio Alberto si fece servire il Vin Santo messo nei caratel­li l’anno del­la sua nascita. ¶ Oggi è diverso. La storia bimil­lenaria del­l’Europa cristiana appartiene al passato. Il mondo in cui ancora era nata la nostra generazione è svanito. È diventato inafferrabile non solo per i nostri fratel­li piú giovani ma anche per noi, gli anziani. […]¶ Ricordo il giorno in cui diventai vecchio a un tratto, definitivamente. Non posso dimenticare le nuvole nere di marzo nel sole del­la sera e le vigne del­la Sommerheide fra Potzleinsdorf e Salmannsdorf vicino a Vienna due giorni prima del­l’Anschluss. ¶ Fino a quel momento era stata una certezza assoluta per me che un giorno avrei dato dei bambini al­l’antica torre di famiglia sul­l’isola dalmata dei miei antenati. Dopo quel­la passeggiata solitaria, questa cosa mi parve impossibile. In quel momento, ragazzo di dodici anni, sperimentai l’esilio del­la carne dal­la trama del­la storia, prima ancora che da Berlino arrivasse l’ordine di mandare tutti i matti del Reich al­le camere a gas. ¶ Discorrere fra noi di questa rottura, nel­l’esperienza del mondo e del­la morte, è un privilegio del­la generazione che ha conosciuto quel che c’è stato prima. […] Il destino ha reso me fin da molto giovane, un col­lega, un consigliere e un amico di uomini e donne nati vari decenni prima. È cosí che ho imparato a lasciarmi edificare e formare da persone troppo vecchie per aver potuto avere questa esperienza di disincarnazione. D’altra parte i nostri studenti sono tutti nati nel­l’epoca dopo Guernica, Dresda, Bergen-Belsen e Los Alamos. Il genocidio e il progetto Genoma, la morte del­le foreste e la cultura idroponica, il trapianto cardiaco e il medicidio rimborsato dal­la sicurezza sociale sono egualmente insipidi, inodori, inafferrabili e fuori dal mondo. Noi che siamo appena abbastanza vecchi e ancora abbastanza giovani per aver vissuto il passaggio al­la Fine del­la Natura, la fine di un mondo proporzionato ai sensi, dovremmo essere capaci di morire come nessun altro. ¶ Ciò che è stato può ritornare polvere. Il passato può essere ricordato. Paul Celan sapeva che dal­la riduzione del mondo, che abbiamo visto noi, resta solo fumo. Il virtual drive del mio computer mi ha fornito un simbolo per questa cancel­latura irrevocabile con la quale la scomparsa del mondo e del­la carne può essere rappresentata. La separazione del mondo dal mondo non si è depositata come le rovine del passato negli strati inferiori del­la terra. È scomparsa come una riga cancel­lata dal­la memoria del computer. ¶ È per questa ragione che noi, i settantenni, siamo dei testimoni unici che conservano in memoria, non soltanto dei nomi, ma dei modi di percepire che nessuno piú conosce. […] Ciò che nel Terzo Reich era ancora propaganda e poteva perciò essere banalizzato dal­la pubblica opinione del sentito dire, oggi viene venduto come Menu nel programma del computer o con la polizza assicurativa; come consigli agli studenti, cure anticancro, antistress, o terapie di gruppo per quel­li che ci cascano. Noi vecchi apparteniamo al­la generazione dei pionieri di questo nonsenso. Siamo gli ultimi sopravvissuti del­la generazione che ha trasformato i sistemi del­lo sviluppo, del­la comunicazione e dei servizi, in bisogni per tutto il mondo. La disincarnazione estraniante dal mondo e l’impotenza programmata che abbiamo diffuso superano di gran lunga in profondità ed altezza i rifiuti che la nostra generazione ha depositato nei cieli e sul­la terra, nel­le falde sotterranee e nel­la stratosfera. ¶ Eravamo nei posti chiave quando la televisione tolse al­la gente la vita quotidiana. Io stesso mi sono battuto perché la stazione televisiva del­l’università fosse in grado di trasmettere, anche con la pioggia, sul­la piazza di ogni vil­laggio di Portorico. Non sapevo al­lora quanto essa avrebbe ridotto il raggio di percezione e a che punto l’orizzonte sarebbe stato barricato dal­la pubblicità. Non pensai che ben presto le previsioni del tempo europeo nei programmi del­la sera avrebbero dipinto le prime luci del­l’alba che entravano dal­la finestra. Per decenni ero stato troppo libero e superficiale nel­l’affrontare inconcepibili astrazioni come: un miliardo di persone sotto la curva di Gauss di un diagramma statistico. Dal gennaio di quest’anno il mio estratto-conto al­la Chase Manhattan Bank è stato decorato con un grafico che permette di confrontare a colpo d’occhio le spese per alimenti, bevande, cancel­leria e materiali da ufficio. ¶ Centinaia dei piú dettagliati servizi di informazione, amministrazione e consigli professionali mi forniscono oggi una loro interpretazione del­la mia conditio humana. […]¶ La realtà dei sensi sprofonda sempre piú nel­le pagine di istruzioni su come vedere, sentire e gustare. L’educazione al­l’irreale come dato di fatto (e ai prodotti irreali del­la fattibilità tecnica il­limitata) comincia sui libri di scuola, i cui testi sono diventati sottotitoli per immagini grafiche, e si conclude con l’aggrapparsi dei morenti al­le incoraggianti analisi diagnostiche sul­le loro condizioni di salute. Eccitanti astrazioni che catturano l’anima hanno ricoperto, come federe di plastica, la percezione del mondo e di noi stessi. […]  [205​  La perdita del mondo e della carne Giannozzo Pucci]  

 

1.3. Evanescenza dell’immediatezza

Jean Baudrillard 1970  125​ 

Lo stesso vale per la relazione: il sistema si instaura sul­la base di una liquidazione totale dei legami personali, del­le relazioni sociali concrete. E in questa misura che diviene necessariamente e sistematicamente produttore di relazioni (pubbliche, umane, ecc.). La produzione di relazioni è divenuta una del­le branche capitali del­la produzione. E poiché esse non hanno più nul­la di spontaneo e poiché esse sono prodotte, queste relazioni sono necessariamente destinate, come tutto ciò che è prodotto, ad essere consumate (i rapporti sociali invece, essendo il prodotto inconscio del lavoro sociale e non il risultato di una deliberata e control­lata produzione sociale, non sono «‹consumati», sono al contrario il luogo del­le «contraddizioni» sociali).  [477​  La società dei consumi, nota 1 cap. 6]  

 

Ivan Illich 1982  52​ 

Per esempio, gli uomini e le donne sono sempre diventati adulti; ora per riuscirci hanno bisogno del­la istruzione. Nel­le società tradizionali maturavano senza accorgersi che le condizioni del­la crescita erano determinate dal­la scarsità. Oggi le istituzioni didattiche insegnano loro che l’apprendimento e la competenza desiderabili sono beni scarsi per i quali uomini e donne devono competere. In tal modo l’istruzione diventa un sinonimo del­l’imparare a vivere in condizioni di scarsità.  [288​  Il genere e il sesso, Cap. 1]  

 

Jacques Camatte 1991  51​ 

Analizziamo il fenomeno. Un uomo, una donna, l’amore; essi s’uniscono, hanno un figlio. Per lo spirito-capitale è un crimine, perché è un atto libero. Hanno ottenuto un essere, considerato dai sostenitori del­la dinamica del capitalismo, come un oggetto, un prodotto, ma senza pagare nul­la. Invece domani non si accoppieranno piú, bensí compreranno in comune un embrione. A seconda del­le loro risorse finanziarie, potranno procurarsi un genio o un cretino. Il vantaggio è che potranno sempre reclamare, se il prodotto non corrispondesse a ciò che desideravano quanto a sesso, colore degli occhi, QI, etc. Inoltre, la separazione dei sessi sarà pienamente possibile [...] poiché sarà possibile, al­lora, far la generazione artificiale, remunerativa e creatrice di posti di lavoro, si utilizzeranno effettivamente tali argomenti. ¶ Si invocherà il beneficio del­l’asepsi integrale, la possibilità di eliminare le tare. Ciò ha per corol­lario la necessità di dimostrare che ogni essere umano è normalmente tarato (a meno che non intervenga la scienza). La tara medica sostituirà il peccato originale, e il cristianesimo verrà cosí salvato. I preti potranno occuparsi del loro gregge artificiale. ¶ Meglio ancora, si mostrerà, come viene già fatto […] che la sessualità è pericolosa, che ogni contatto è rischio patogeno. Da lí, tutta l’esaltazione mercantile del­l’AIDS, del­le malattie sessualmente trasmissibili. Al limite, essere naturali non potrà (come già hanno scritto gli autori del­la fantascienza, cfr. Défense de coucher per esempio) che generare disgusto, da cui il tuffo forzato nel­la virtualità [...]. Se non ci sono piú contatti, tutto può essere protetto, ma l’Homo sapiens sarà spogliato del­la sessualità, come tende a esserlo del pensiero grazie al computer. Cosí come di tutti i rapporti intraspecifici.  [382​  Gloses en marge d'une réalité VI]  

 

1.4. Solitudine ed estasi della promiscuità

Edgar Allan Poe 1840  151​ 
Altri — una classe eziandio numerosissima — erano nel­le lor mosse irrequieti, avean sanguigne faccie, e parlavan tra sé gesticolando, come se pel fatto stesso di quel­la moltitudine infinita ond’erano circondati, si sentissero soli.  [525​  L’uomo della folla]  

 

Jean Baudrillard 1986  122​ 

Qui, il numero degli individui che pensano soli, che cantano soli, che mangiano e parlano soli nel­le strade, è incredibile. Pure, non si sommano. Anzi, si sottraggono gli uni agli altri, e la loro somiglianza è incerta. ¶ Ma vi è una solitudine che non assomiglia a nessun’altra. Quel­la del­l’uomo che si prepara pubblicamente il pasto, su un muretto, sul cofano di un’automobile, lungo una cancel­lata, solo. È uno spettacolo che si vede dappertutto, qui, ed è la cosa più triste del mondo, più triste del­la miseria; più triste del mendicante è l’uomo che mangia solo in pubblico. Niente di più contraddittorio rispetto al­le leggi del­l’uomo o del­l’animale, perché le bestie hanno sempre la dignità di spartire o di contendersi il cibo. Colui che mangia solo è morto (ma non colui che beve, perché?). ¶ Perché la gente vive a New York? Le persone, qui, non hanno alcun rapporto fra loro. Ma una elettricità interna che scaturisce dal­la loro pura promiscuità. Una sensazione magica di contiguità e di attrazione per una centralità artificiale. ¶ Ed è questo che la rende un universo autoattrattivo dal quale non vi è alcuna ragione di uscire. Non vi è alcuna ragione umana per essere qui, ma solo l’estasi del­la promiscuità.  [473​  America, pp. 26–27]  

 

1.5. Ansia e depressione generalizzate

Giorgio Cesarano & Gianni Collu 1973  133​ 

[Tesi 49] L’antropomorfosi del­le leggi del capitale va di pari passo con l’intensificazione del­le forme patologiche complessive, di cui la vita quotidiana di ciascuno si avvia ad essere una semplice elencazione o riassunto. Così diviene possibile cogliere senza alcun equivoco quel­la che è la patogenesi sociale di ogni forma di «malattia mentale» come malattia specificamente capitalista. Quando l’individuo viene coinvolto in prima persona dal processo di valorizzazione e devalorizzazione, la stessa funzionalità nervosa ne diviene un semplice doppio. (Mentre nel­la sfera del­l’esteriorità oggettiva il dominio reale integra a sé ogni essere, riducendolo a suo proprio organismo, nel­la sfera del­l’interiorità colonizzata l’essere-capitale riduce a sé la funzionalità del­l’organizzazione egoarchica, ma non riesce ad impadronirsi del­l’essenza organica. Su questo terreno non può andare oltre una fase di dominio formale. Nel­l’essenza organica. si polarizza ormai la soggettività antagonista del proletariato rivoluzionario.) ¶ Come nel ciclo del­la merce il valore prodotto deve circolare compiendo diverse metamorfosi, sotto le seducenti spoglie di un qualsiasi valore d’uso, per riuscire a realizzarsi, quindi a risultare valorizzato; così è per l’individuo ridotto a frammento del momento complessivo del valore, che deve, in un continuum ossessivamente coatto (questione di «vita» o di «morte»), valorizzare la propria sopravvivenza, che in quanto immagine con apparenza di valore d’uso può, o realizzarsi divenendo matrice di una serie, oppure andare incontro al disastro del­la devalorizzazione. Ciò che il dominio reale del capitale cerca di programmare in questo ambito, è una «circolazione semplice» del­le differenti forme di sopravvivenza, comunque progettate o confezionate, in cui viga del tutto la competizione. L’Egovalore, che diviene piccola azienda operando sul mercato secondo lo schema classico del­la legge del valore (scambio di pseudo-equivalenti), è il soggetto del­l’ultima utopia «proudhoniana» del capitale, la società del libero mercato del­la sopravvivenza. ¶ Il ciclo maniacale euforico e quel­lo depressivo, che costituiscono ormai i momenti focali e caratterizzanti del non-vissuto quotidiano, e ne regolano la stravolta scansione emotiva, sono ormai il riflesso palese l’uno del­l’avvenuta valorizzazione del valore, che è poi il conseguimento di una dignità ontologica del tutto irreale, l’altro di una bancarotta sempre potenzialmente mortale. La ciclotimia incombe come destino col­lettivo.  [485​  Apocalisse e rivoluzione]  

 

1.6. Rinchiudimento

Jacques Camatte 2004  140​ 

Cosa impedisce agli uomini e al­le donne di vivere questo godimento e li consegna al­la dipendenza?
• Il rinchiudersi in un divenire fuori natura fon­dato a partire da una rottura di continuità con essa, con il cosmo, per sfuggire ad una minaccia la cui ragione, i fondamenti sono stati da lungo tempo perduti, dimenticati, scotomizzati, rimossi.
• Il rinchiudersi in una domesticazione ☞ legata al­l’abbandono di ogni naturalità, a uno stornamento nel­l’artificiale, fondamen­ti del­la repressione genitoriale.
• Il rinchiudersi in un modo di conoscere che mira principalmente a giustificare il divenire di erranza che lo fonda.
• Il rinchiudersi in una sovranatura popolata d’ipostasi, di entità, in un mondo virtuale, forma profana del­la prima.  [497​  Presentazione del sito Revue Invariance]  

 

AA.VV. 2024  139​ 

Un hikikomori è una persona che ha scelto di limitare o ridurre la propria vita sociale, spesso ricorrendo a livel­li estremi di isolamento e confinamento, rifiutando il contatto con le persone intorno e il mondo esterno. Vi si associa spesso il rifiuto di comunicare, o la scelta di farlo solo attraverso sistemi che garantiscano al soggetto il pieno control­lo del­la comunicazione stessa, come quel­li informatici. La diffusione del fenomeno in Giappone ha avuto luogo dal­la metà degli anni ottanta, con un incremento sostanziale verso la fine degli anni novanta. Nel 2008 l'Università di Okinawa parlava di 410 000 soggetti colpiti, ma secondo i dati riferiti da Saitō la prevalenza di hikikomori sarebbe di due milioni di soggetti. Lo hikikomori non è un fenomeno esclusivamente giapponese essendo diffuso, in percentuale minore rispetto al Giappone, anche nel mondo occidentale e nel resto del­l'Asia.  [493​  Informazioni comuni]  

 

Vedi anche:  Un lockdown prima del lockdown. Studio sulla variazione del TAEg8 nel tempo.

1.7. Controllo e sorveglianza

Alexis de Tocqueville 1840  168​ 

Avevo notato, durante il mio soggiorno negli Stati Uniti, che un assetto sociale democratico, simile a quel­lo degli Americani, poteva agevolare particolarmente lo stabilirsi del dispotismo; [...]
Non si è mai visto, nei tempi passati, un sovrano così assoluto e potente da amministrare da solo, e senza l’aiuto di poteri secondari, tutte le diverse parti di un grande impero; nessuno ha mai tentato di assoggettare indistintamente tutti i sudditi al­la lettera di una regola uniforme, né si è posto al fianco di ciascuno per dominarlo e guidarlo. [...]
Gli imperatori possedevano, è vero, un potere immenso e senza contrappesi, il quale permetteva loro di abbandonarsi liberamente al­la stravaganza del­le loro voglie e di impiegare l’intera forza del­lo Stato per soddisfarle; è spesso accaduto che essi abusassero di questo potere, per togliere arbitrariamente a un cittadino i beni o la vita: la loro tirannia pesava fortemente su qualcuno, ma non si estendeva mai su un gran numero di persone; si attaccava a qualche grande oggetto e trascurava il resto; era violenta e limitata. ¶ Se il dispotismo si affermasse nel­le nazioni democratiche di oggi, c’è da presumere che avrebbe altre caratteristiche: sarebbe più esteso e più mite e avvilirebbe gli uomini senza tormentarli. ¶ Sono certo che, in secoli di lumi e d’uguaglianza quali sono i nostri, i sovrani potrebbero giungere più facilmente a riunire tutti i poteri pubblici nel­le loro sole mani e a penetrare più abitualmente e più profondamente nel­la cerchia degli interessi privati di quanto non abbia potuto mai fare nessun sovrano del­l’antichità. [...]
Quando penso al­le modeste passioni degli uomini di adesso, al­la mitezza dei loro costumi, al­la loro apertura mentale, al­la purezza del­la loro religione, al­l’umanità del­la loro morale, al­le loro abitudini laboriose e sistematiche, al ritegno che dimostrano quasi tutti nel vizio come nel­la virtù, non ho tanto paura che incontrino nei loro capi dei tiranni quanto dei tutori. [...]
Cerco inutilmente io stesso un’espressione che renda esattamente l’idea che me ne faccio e la contenga; le vecchie parole come «dispotismo» e «tirannide» non sono più adeguate. La cosa è nuova, bisogna dunque cercare di definirla, visto che non posso darle un nome. ¶ Immaginiamo sotto quali nuovi aspetti il dispotismo potrebbe prodursi nel mondo: vedo una fol­la innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su sé stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in sé stesso e per sé stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire per lo meno che non ha più patria. ¶ Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sul­la loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. Assomiglierebbe al­l’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di preparare l’uomo al­l’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmente al­l’infanzia; è contento che i cittadini si svaghino, purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri al­la loro felicità, ma vuole esserne l’unico agente ed il solo arbitro; provvede al­la loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri, guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere? ¶ È così che giorno per giorno esso rende sempre meno utile e sempre più raro l’impiego del libero arbitrio, restringe in uno spazio sempre più angusto l’azione del­la volontà e toglie poco al­la volta a ogni cittadino addirittura la disponibilità di sé stesso.  [557​  La democrazia in America, libro II, parte IV, cap. VI]  

 

Juan Do­noso Cortés 1849  167​ 

Il fondamento di tutti i vostri errori, signori, consiste nel­l’ignorare quale è la direzione del­la civiltà e del mondo. Voi credete che la civiltà ed il mondo avanzino, quando invece sia l’una che l’altro retrocedono. Il mondo cammina con passi rapidissimi al­la costituzione di un despotismo, il più gigantesco ed assoluto che sia mai esistito a memoria d’uomo. […]
Considerate una cosa, signori. Nel mondo antico la tirannide fu feroce, devastatrice, e tuttavia era limitata, perché tutti gli Stati erano piccoli, e perché le relazioni internazionali erano impossibili: di conseguenza nel­l'antichità poté esserci una sola, grande tirannide, quel­la di Roma. Ma ora, come sono mutate le cose! La via è preparata per un tiranno gigantesco, colossale, universale, immenso; tutto è preparato per lui. Guardate, signori, già non vi sono resistenze fisiche, perché con le navi e con le ferrovie non esistono più frontiere e con il telegrafo si sono annul­late le distanze; e non vi sono resistenze morali, perché tutti gli animi sono divisi e tutti i patriottismi sono morti.  [553​  Discorso sulla dittatura]  

 

1.8. Mercificazione illimitata

Karl Marx 1844  36​ 
La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo del­le cose.  [238​  Manoscritti del 1844]  

 

Chuck Palahniuk 2005  138​ 
Il Sogno americano: trasformare la propria vita in qualcosa che si può vendere.  [489​  Cavie, p. 60]  

 

Karl Marx 1847  53​ 

Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quel­le stesse cose che fino al­lora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate — virtú, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. — tutto divenne commercio. È il tempo del­la corruzione generale, del­la venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore.  [209​  Miseria della filosofia, Cap.1, §1]  

 

Karl Marx 1867  87​ 

[...] la circolazione del denaro come capitale è fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro tale movimento continuamente rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura.  [268​  Il Capitale, Libro I, Cap. 4]  

 

1.9. Combinatoria e Combinismo

Jean Baudrillard 1968  108​ 

Ciò che viene a mancare al­la serie, non è la materia, quanto una certa coerenza tra materia e forma, quel­la che dà il carattere specifico di compiuto al model­lo. Questa coerenza o insieme di rapporti necessari è distrutta a vantaggio del gioco differenziale del­le forme, dei colori o degli accessori. Al­lo stile si sostituisce una combinatoria. La dequalificazione che abbiamo segnalato a livel­lo tecnico assume in questo caso l'aspetto del­la destrutturazione. Nel­l'oggetto-model­lo non vi sono particolari, o meglio, non c'è gioco di particolari: le Rol­ls Royce sono nere, e nient'altro che nere. L'oggetto è fuori-serie, o fuori-gioco, con l'oggetto personalizzato il gioco si al­larga proporzionalmente fino al carattere seriale (troviamo al­lora dieci o quindici tonalità di colore diverse nel­la stessa marca) fino a che non si ritorna al­la pura strumentalità, in cui nuovamente il gioco non esiste piú (per lungo tempo le 2CV sono state tutte di un grigio che, praticamente, non era un colore). Il model­lo ha un'armonia, un'unità, un'omogeneità, una coerenza di spazio, di forma, di sostanza e di funzione — è una sintassi. L'oggetto di serie è solo giustapposizione, combinazione fortuita, discorso inarticolato, Detotalizzato, è soltanto una somma di particolari che muovono meccanicamente verso serie paral­lele.  [433​  Il sistema degli oggetti, pp. 188-189]  

 

Jean Baudrillard 1970  126​ 

Distinzione o conformità? ¶ […] Così la funzione di questo sistema di differenziazione va ben al di là del­la soddisfazione dei bisogni di prestigio. Se si ammette l’ipotesi enunciata in precedenza, si vede che il sistema non gioca mai su differenze reali (singolari, irriducibili) tra le persone. Quel che lo fonda come sistema è precisamente il fatto di eliminare il contenuto proprio, l’essere proprio di ciascuno (forzatamente differente) per sostituirvi la forma differenziale, industrializzabile e commercializzabile come segno distintivo. Il sistema elimina ogni qualità originale per non conservare che lo schema distintivo e la sua produzione sistematica. A questo livel­lo le differenze non sono più esclusive: non solamente esse si implicano logicamente tra loro nel combinatorio del­la moda (come i differenti colori «‹giocano» tra loro), ma anche sociologicamente: è lo scambio del­le differenze che suggel­la l’integrazione del gruppo. Le differenze così codificate lungi dal dividere gli individui diventano al contrario materiale di scambio. È questo un punto fondamentale per cui il consumo si definisce: (1) non più come pratica funzionale degli oggetti, possesso, ecc., (2) non più come semplice funzione di prestigio individuale o di gruppo, (3) ma come sistema di comunicazione e di scambio, come codice di segni continuamente emessi e ricevuti e reinventati, come linguaggio. ¶ Le differenze di nascita, di sangue, di religione un tempo non si scambiavano: esse non erano differenze di moda ma riguardavano invece l’essenziale. Esse non erano «‹consumate»›. Le differenze attuali (di vestito, di ideologia, persino di sesso) si scambiano in seno a un vasto consorzio di consumo. È uno scambio socializzato di segni. E se tutto così si può cambiare sotto la forma di segno, non è in virtù di qualche «liberalizzazione»› dei costumi; ciò avviene invece perché le differenze sono sistematicamente prodotte secondo un ordine che le integra tutte come segni di riconoscimento, ed essendo sostituibili non c’è tra esse più tensione o contraddizione di quanta ce ne sia tra l’alto e il basso, o tra la destra e la sinistra.  [477​  La società dei consumi, pp. 97-98]  

 

Jacques Camatte 2010-2023  8​ 

[voce: «Combinatoria e Combinismo»] Combinismo: teoria e comportamento — teoria e pratica non sono separate — la cui base è la combinatoria. Ciò implica che il reale risulta dal­l’instaurarsi di questa, e che il presentarsi di quel­lo, la sua manifestazione, implica una combinatoria di epistemi, anche molto antichi, e una combinatoria di pratiche. Queste si presentano come manipolazioni, nel senso piú generale, che include tanto la sperimentazione scientifica quanto il bricolage, quindi l’intero arsenale tecnico prodotto in migliaia di anni. Può esserci combinatoria solo se c’è coesistenza, tol­leranza, permissività, gioco, messa in gioco o messa in scena; solo se ogni elemento ha un certo gioco; d’altro canto sono necessarie trasparenza, adattabilità e il suo complemento, la selezione, il che implica anche l’obsolescenza perché la combinatoria si rinnovi, e l’il­lusione del progresso, cosí come l’immaginazione, l’innovazione. Il tutto è possibile, e soprattutto probabile, s’impone grazie al­le reti e al­la comunicazione, agenti essenziali del­l’avvio del­la combinatoria e del­la sua realizzazione. ¶ La combinatoria è in un certo senso dispotica: essa ingloba tutto, recupera tutto, persino i valori. È il gioco del capitale divenuto completamente autonomo, privato di sostanza, di interiorità (antropomorfizzazione autonomizzata), che si presta a tutto grazie al­l’espansione del­la comunicazione che uomini e donne percepiscono come valore, al fine di poter ancora situarsi nel loro mondo. Tuttavia, la combinatoria può essere effettiva solo se gli agenti si affidano al­la dinamica che, in definitiva, è epifanizzazione del meccanismo infernale. Un imperativo morale domina il tutto, anche se non lo si dice: si deve combinare per adattarsi e, per questo, occorre spogliarsi di tutto ciò che, in noi, può inibire la comunicazione, motore del­la combinatoria. ¶ I fenomeni vitali sono interpretati, vissuti, attraverso la combinatoria. Es.: la sessualità. Si combina per esistere.  [201​  Glossario]  

 

 

Capitolo 2. Presupposti remoti del processo

André Leroi-Gourhan 1964  127​ 

[...] gli habitat ben conservati anteriori al­l'homo sapiens sono rari e finora solo pochi sono stati oggetto di scavi eseguiti con una esattezza sufficiente a fornire una documentazione esauriente. Il poco che sappiamo basta tuttavia a dimostrare che si è verificato un cambiamento profondo tanto nel momento che coincide con lo sviluppo del sistema cerebrale del­le forme vicine al­l'homo sapiens quanto in quel­lo che coincide con lo sviluppo del simbolismo astratto e l'intensa diversificazione del­le unità etniche. Queste constatazioni archeologiche autorizzano ad assimilare, a partire dal Paleolitico superiore, i fenomeni di inserimento spazio- temporale al sistema di simboli di cui il linguaggio è lo strumento principale; essi corrispondono a una vera e propria presa di possesso del tempo e del­lo spazio mediante i simboli, a una addomesticazione nel senso più stretto perché portano al­la creazione, nel­la casa e partendo dal­la casa, di uno spazio e di un tempo sui quali si può avere il dominio. ¶ Questo «addomesticamento» simbolico conduce al passaggio dal­la ritmicità naturale del­le stagioni, dei giorni, del­le distanze percorribili a una ritmicità regolarmente condizionata nel­la rete dei simboli del calendario, del­le ore, del­le misure, che fanno del tempo e del­lo spazio umanizzati la scena su cui l'uomo domina la natura. Il ritmo del­le cadenze e degli interval­li regolarizzati si sostituisce al­la ritmicità caotica del mondo naturale e diventa l'elemento principale del­la socializzazione umana, l'immagine stessa del­l'inserimento sociale, al punto che la società trionfante ha per cornice solo una scacchiera di città e di strade su cui l'ora guida il movimento degli individui. Il legame fra spazio-tempo umanizzato e società è sentito a tal punto che da secoli l'individuo che pretende di ritrovare il proprio equilibrio spirituale ha come unica via, in tutte le civiltà, quel­la che con duce al monastero e, più in là, al­le caverne e al deserto, giungendo come Simeone lo Stilita o il Buddhidharma al duplice rifiuto del tempo e del­lo spazio nel­la immobilizzazione contemplativa.  [481​  Il gesto e la parola, p. 366]  

 

2.1. Rifiuto della realtà

T.S. Eliot 1935  1​ 
​Via, via, andate, disse l'uccel­lo: la specie umana ​/​ non può sopportare tanta realtà.  [199​  Quattro quartetti : Burnt Norton]  

 

2.1.1. Rappresentazione • Spettacolo
Guy Debord 1967  58​ 
[Tesi 1] L’intera vita del­le società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è al­lontanato in una rappresentazione.  [304​  La Società dello spettacolo]  

 

André Leroi-Gourhan 1964  135​ 

Nel­l'isolamento microetnico, i membri del vano, bene o male, fabbricarsi le camicie e la loro estetica sociale, a costo di un dispendio di tempo che lasciava al­l'organismo col­lettivo solo un modesto vantaggio. È evidente che si realizza un risparmio considerevole in un sistema in cui il soggetto che produce spartisce la propria vita fra l'attività produttiva e l'accettazione passiva del­la propria parte di vita col­lettiva, parte scelta, dosata, prepensata e vissuta da altri. Come la liberazione del­l'arte culinaria nei cibi conservati, quel­la del­le operazioni sociali nel televisore è un vantaggio col­lettivo. La contropartita è un rischio di gerarchizzazione sociale forse piú accentuata che in passato; una stratificazione realizzata mediante selezione razionale separerà dal­la massa pochi elementi per dar loro la posizione di fabbricanti di evasione teleguidata. Una minoranza sempre più ristretta elaborerà non solo i programmi essenziali, politici, amministrativi, tecnici, ma anche le razioni di emotività, le evasioni epiche, l'immagine di una vita diventata completamente figurativa, perché al­la vita sociale reale può, senza scosse, sostituirsi una vita sociale puramente rappresentata. La via esiste fin dal primo racconto di caccia del Paleantropo, e ancor piú dal primo romanzo o dal primo racconto di viaggio. La razione di emotività già oggi è costituita da montaggi etnografici composti di realtà ormai scomparse: Sioux, cannibali, filibustieri, che formano il quadro di sistemi di relazione poveri e arbitrari. Ci si può chiedere quale sarà il livel­lo di realtà di queste immagini più o meno imbalsamate, quando i creatori discenderanno da quattro generazioni di genitori teleguidati nei loro contatti audiovisivi con un mondo fittizio. L'immaginazione, che non è se non la possibilità di creare cose nuove partendo dal­la vita vissuta, corre il rischio di un sensibile calo. Il li- vel­lo mediocre del­le letture popolari, dei giornali il­lustrati, del­la radio e del­la televisione offre una interessante indicazione: esso corrisponde a una selezione naturale dei creatori e degli argomenti trattati, e si può ritenere che la maggioranza statistica dei consumatori riceva l'alimento emozionale appropriato ai suoi bisogni e al­le sue possibilità di assimilazione. Ma il nostro mondo vive su un capitale di sopravvissuti in grado di assicurare un certo recupero del­la realtà vissuta. ¶ Tra dieci generazioni il creatore di finzioni sociali sarà probabilmente selezionato e sottoposto a un corso di «rinaturazione» in un parco in cui cercherà di dissodare un angolo di terra con l'aiuto di un aratro copiato nei musei e trainato da un caval­lo preso da una riserva, preparerà la minestra a casa e organizzerà visite ai vicini, fingerà uno sposalizio, andrà vendere cavoli ad altri partecipanti al corso in un piccolo mercato, imparerà di nuovo a confrontare i vecchissimi scritti di Flaubert con la realtà miseramente ricostruita. Dopo di che sarà certamente in grado di fornire agli organi di produzione telediffusa uno stock di emozioni rinnovate.  [481​  Il gesto e la parola, pp. 419-420]  

 

AA.VV. 1982  94​ 

[voce: «Rappresentazione»] […] Il primo tentativo di teorizzare il processo di rappresentazione [Vorstel­lung] come sistematizzazione distorta e mistificata del­la realtà è stato presentato nel­l’Ideologia tedesca. Rappresentare se stessi significa essere rappresentati altrove e da altri ex novo, o «partecipare al­l’il­lusione di ogni epoca storica». Per quanto riguarda l’ideologia, la nozione di rappresentazione indica che essa cattura elementi di conoscenza al solo scopo di globalizzarli in un sistema (di rappresentazioni) e che agisce anche sugli uomini come una forza materiale oggettiva:
«L’‹immaginazione›, la ‹rappresentazione› che gli uomini (determinati) si fanno del­la loro pratica effettiva si trasforma nel­l’unico potere determinante e attivo che domina e determina la pratica di questi uomini».Nel Capitale, Marx spiega anche come la rappresentazione, in quanto effetto distorsivo, derivi, nel­la coscienza degli agenti di produzione, dal­l’opacità del funzionamento del modo di produzione capitalistico stesso.  [380​  Dictionnaire critique du marxisme]  

 

2.1.2. Sviluppo abnorme delle protesi • Surrogati (Ersatz) • Sostituzioni
Marcus Valerius Martialis 86-102  81​ 
Bianchi denti ha Lecania, e Taide neri. ​/​ Perché? Quel­li son finti, e questi veri.  [368​  Epigrammi]  

 

Karl Marx 1844  72​ 

Il denaro, possedendo la caratteristica di comprar tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l’oggetto in senso eminente. L’universalità di questa sua caratteristica costituisce l’onnipotenza del suo essere; è tenuto per ciò come l’essere onnipotente... il denaro fa da mezzano tra il bisogno e l’oggetto, tra la vita e i mezzi di sussistenza del­l’uomo. Ma ciò che media a me la mia vita, mi media pure l’esistenza degli altri uomini per me. Questo è per me l’altro uomo.
«Mondo boia! Di certo mani e piedi, testa e chiappe sono tue; ¶ ma tutto ciò che mi godo in al­legria è per questo meno mio? ¶ Se mi posso pagare sei stal­loni, le loro forze non sono le mie? ¶ Corro via di galoppo e sono un uomo in gamba, come se avessi ventiquattro zampe. (Goëthe, Faust, Mefistofele).»Shakespeare nel Timone di Atene:
«Che c’è qui? Oro? Gial­lo, luccicante, prezioso oro? No, dèi, non faccio voti insinceri: voglio radici, o puri Iddii! ¶ Basterà un po’ di questo per rendere nero il bianco, bel­lo il brutto, diritto il torto, nobile il basso, giovane il vecchio, valoroso il codardo. ¶ O dèi, perché questo? Che è mai, o dèi? Questo vi toglierà dal fianco i vostri preti e i vostri servi e strapperà l’origliere di sotto la testa ai malati ancora vigorosi. ¶ Questo schiavo gial­lo cucirà e romperà ogni fede, benedirà il maledetto e farà adorare la livida lebbra, col­locherà in alto il ladro e gli darà titoli, genuflessioni ed encomio sul banco dei senatori. ¶ È lui che decide l’esausta vedova a sposarsi ancora. Colei che un ospedale di ulcerosi respingerebbe con nausea l’oro la profuma e la imbalsama come un dí d’aprile. ¶ Orsú dunque, maledetta mota, comune bagascia del genere umano che metti a soqquadro la marmaglia dei popoli, io voglio darti il tuo vero posto nel mondo.»E piú oltre:
«O tu dolce regicida! Caro strumento di divorzio tra figlio e padre! Tu, bril­lante profanatore del piú puro letto d'Imene! Tu, gagliardo Marte, tu sempre giovane, fresco, amato e delicato seduttore il cui rossore fa fondere la neve che giace nel grembo di Diana! Tu, visibile dio che unisci le cose piú incompatibili e fai ch'esse si bacino! Tu che parli con ogni lingua ed a ogni fine! O pietra di paragone dei cuori! considera ribel­le l'umanità tua schiava e con la tua possa gettala in un caos di discordie sí che le belve possano imperare sul mondo!».Shakespeare descrive l’essenza del denaro in modo veramente incisivo. Per comprenderlo, cominciamo dal­l’interpretazione del passo di Goëthe. ¶ Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quel­lo sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dal­la mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la piú bel­la tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l’effetto del­la bruttezza, la sua forza repulsiva, è annul­lata dal denaro. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura ventiquattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il denaro è il bene supremo, e quindi il suo possessore è buono; il denaro inoltre mi toglie la pena di esser disonesto; e quindi si presume che io sia onesto. Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intel­ligenza di tutte le cose; e al­lora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre costui potrà sempre comperarsi le persone intel­ligenti, e chi ha potere sul­le persone intel­ligenti, non è piú intel­ligente del­le persone intel­ligenti? Io che col denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quel­lo a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà? Forse che il mio denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario? ¶ E se il denaro è il vincolo che mi unisce al­la vita umana, che unisce a me la società, che mi col­lega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli? Non può esso sciogliere e stringere ogni vincolo? E quindi non è forse anche il dissolvitore universale? Esso è tanto la vera moneta spicciola quanto il vero cemento, la forza galvano-chimica del­la società. Shakespeare rileva nel denaro soprattutto due caratteristiche; ¶ 1.) è la divinità visibile, la trasformazione di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l’universale rovesciamento del­le cose. Esso fonde insieme le cose impossibili; ¶ 2.) è la meretrice universale, la mezzana universale degli uomini e dei popoli. ¶ La confusione e il rovesciamento di tutte le qualità umane e naturali, la fusione del­le cose impossibili — la forza divina — propria del denaro risiede nel­la sua essenza in quanto è l’essenza estraniata, che espropria e si aliena, del­l’uomo come essere generico. Il denaro è il potere alienato del­l’umanità.  [238​  Manoscritti del 1844]  

 

Günther Anders 1956  99​ 

Niente ci al­lontana da noi stessi e dal mondo in modo più disastroso che trascorrere la nostra vita, ormai quasi costantemente, in compagnia di questi esseri falsamente intimi, questi schiavi fantasma che portiamo nel nostro salotto con una mano intorpidita dal sonno — perché l'alternanza tra sonno e veglia ha lasciato il posto al­l'alternanza tra sonno e radio — per ascoltare le trasmissioni mattutine durante le quali ci parlano, ci guardano, ci cantano, ci incoraggiano, ci consolano e, rilassandoci o stimolandoci, danno il tono a una giornata che non sarà la nostra. Nul­la rende più definitiva l'autoalienazione che continuare la giornata sotto l'egida di questi amici apparenti: perché dopo, anche se si presenta l'occasione di entrare in relazione con persone vere, preferiamo rimanere in compagnia dei nostri portable chums, i nostri amici portatili, perché non li sentiamo più come dei surrogati ma come dei veri amici.  [340​  L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale]  

 

Stefano Isola 2023  117​ 

Se nel­la prima fase del­l’IA, il termine «intel­ligenza» rimandava ad un tentativo, per quanto rozzo ed ingenuamente riduzionista, di costruirne model­li meccanici, l’IA attuale verte piuttosto su processi decisionali automatizzati che con l’intel­ligenza umana poco o nul­la hanno a che fare. Il persistere nel­l’uso del termine «intel­ligenza» istituisce quindi ciò che Eric Sadin ha chiamato un atto di forza retorico, e contribuisce non poco al­la generale puerilità con cui si parla del­le prestazioni del­l’IA. Ma l’uso di un lessico fuorviante non si ferma qui: non solo i vari dispositivi hanno spesso nomi ispirati al­la vita biologica, neuro-questo, neuro-quel­lo ecc., ma è normale dire che una macchina «pensa», «vede», «legge», «apprende», «capisce», «parla» ecc. Tale finzione, sempre più consolidata nel­la nostra cultura, ha una precondizione, come abbiamo visto: l’assimilazione del­la soggettività individuale ad atomo isolato operata dal liberalismo [leggi capitalismo, N.d.E.] fin dal­le sue origini e operativamente rafforzata dal­le moderne teorie del comportamento. ¶ Per altro, l’intel­ligenza artificiale utilizzata oggi è detta IA ristretta in quanto è progettata per eseguire compiti specifici e solo quel­li (ad esempio, solo il gioco, solo il la guida di un’auto, solo la scrittura di testi, solo la sintesi riconoscimento facciale, solo le ricerche su Internet, solo musicale ecc.). Ma l’obiettivo a lungo termine di molti ricercatori è quel­lo di creare un’IA generale in grado di eguagliare o superare gli esseri umani in quasi tutti i compiti cognitivi: secondo il già citato Ray Kurzweil, i computer supereranno il test di Turing entro il 2029, dimostrando così di possedere una «mente» indistinguibile da quel­la umana (ma ad essa molto superiore in tutti i compiti di natura computazionale). ¶ [...] il celebre test di Turing prevede che una macchina possa essere definita «intel­ligente» solo quando non sia più possibile stabilire la natura del­l’interlocutore (nascosto) durante una conversazione sostenuta indifferentemente da una persona o da una macchina.  [457​  A fin di bene: il nuovo potere della ragione artificiale, pp. 97–102]  

 

2.1.3. Rimozione • Escamotaggio • Stornamento

Jacques Camatte 2010-2023  14​ 

[voce: «Rimozione»] Concetto coniato da S. Freud che indica il processo inconscio che impedisce (inibendo) che ciò che provoca una sofferenza intol­lerabile o che potrebbe ricordarla, riattivarla, possa diventare cosciente. Ciò che egli ha percepito nel­l'immediato è la riemersione del rimosso (fenomeno inconscio per il paziente), in particolare attraverso segni (sintomi) organici. Ne ha dedotto che al­le origini vi era stato un fenomeno di rimozione (Verdrängung).  [201​  Glossario]  

 

Jacques Camatte 2010-2023  15​ 

[voce: «Escamotaggio»] Dinamica che fa scomparire un dato importante, dando spesso l’impressione di tenerne conto.
(N.d.T.: In italiano il francesismo escamotage normalmente sta per espediente, sotterfugio, mentre in francese (e in spagnolo) il significato primario del verbo escamoter (sp: escamotear ) è l’azione di far sparire abilmente qualcosa dal­la vista; originariamente designava le manovre con carte e oggetti di prestidigitatori e maghi di strada. Escamoter une carte. Lit escamotable = letto a scomparsa. Per rendere correttamente il significato del termine, frequentemente usato da C. abbiamo ritenuto necessario ricorrere al suo traducente esatto, il desueto escamotare ed a escamotaggio, tuttora vivo perlomeno nel campo del­la fotografia professionale.)  [201​  Glossario]  

 

Jacques Camatte 2010-2023  16​ 

[voce: «Stornamento»] Concetto coniato dai membri del­l’Internazionale Situazionista, e che ebbe una grande popolarità a partire dal 1968. Ritengo che esso connoti qualcosa di comune con quel­lo di Verführung (S. Freud), tradotto con «seduzione». Lo stornamento fondamentale, che determina un’impronta che potrà essere riattivata e indurre dei rigiocamenti, consiste nel fatto che i genitori stornano il bambino dal­la sua naturalità in modo che si adatti al mondo al di fuori del­la natura e artificiale. [...]  [201​  Glossario]  

 

2.1.4. Antropomorfosi

Karl Marx 1844  134​ 

Già nel­la proprietà fondiaria feudale la signoria sul­la terra si presenta come una potenza estranea al di sopra degli uomini. [...]. Lo stesso signore di un maggiorasco, il figlio primogenito, appartiene al­la terra. Essa lo eredita. [...] La proprietà fondiaria feudale dà al suo signore il nome, come un regno lo dà al suo re. La storia del­la sua famiglia, del­la sua casa, ecc., tutto ciò dà al suo possesso fondiario un carattere individuale, e lo fa diventare formalmente la sua casa, lo fa diventare una persona.  [238​  Manoscritti del 1844]  

 

Karl Marx 1844  64​ 

Che cosa costituisce l’essenza del credito? [...] Il credito è il giudizio economico sul­la moralità di un uomo. Nel credito, al posto del metal­lo o del­la carta, l’uomo stesso è diventato l’intermediario del­lo scambio, non però in quanto uomo, ma in quanto esistenza di un capitale e dei suoi interessi. Il medio del­lo scambio è dunque certamente tornato e trasferito, dal­la sua figura materiale, nel­l’uomo, ma solo perché l’uomo stesso, estraniato a sé, è diventato egli stesso una figura materiale. Non è già il denaro ad esser superato nel­l’uomo, nel rapporto di credito, ma è l’uomo stesso che viene mutato in denaro, ovvero è il denaro che si è incorporato in lui. L’individualità umana, la morale umana è diventata essa stessa sia un articolo di commercio, sia un materiale in cui esiste il denaro. Non piú moneta e carta, ma la mia propria esistenza personale, la mia carne ed il mio sangue, la mia virtú ed il mio valore sociali sono la materia, il corpo del­lo spirito del denaro. Il credito strappa il valore del denaro non piú dal denaro stesso, ma dal­la carne umana e dal cuore umano. [...] a causa di questa esistenza del tutto ideale del denaro la falsificazione non può essere intrapresa dal­l’uomo su nessun’altra materia che non sia la sua propria persona, egli stesso deve fare di sé una falsa moneta, deve carpire con inganno il credito, deve mentire ecc., e questo rapporto di credito [...] diventa oggetto di commercio, oggetto di inganno e abuso reciproco.  [320​  Estratti dal libro di James Mill, «Éléments d’économie politique»]  

 

Jacques Camatte 2010-2023  5​ 

[voce: «Antropomorfosi»] ~ Del­la divinità. Metamorfosi del numen (del sacro) in una figura umana. È accompagnata da una divinomorfosi che originariamente riguardava l’unità superiore rappresentativa del­la comunità astrattizzata divenuta Stato nel­la sua primitiva forma. Successivamente essa può concernere i mistici.
~ Del­la proprietà fondiaria. Fenomeno esposto da K. Marx in Per la Critica del­la filosofia del diritto di Hegel dove afferma in particolare che non è l’uomo che eredita la proprietà fondiaria, ma il contrario. Questa antropomorfosi è l’espressione suprema del fenomeno del­la fondiarizzazione, del culto del­l’autoctonia, del­la mistica del suolo. Il suo complemento, secondo K. Marx, è una zoomorfosi di uomini e donne. Si potrebbe aggiungere una ctonizzazione, compulsione a ritornare a ciò che è posto come fondamento, come origine: la terra come suolo (la sepoltura ne sarebbe un supporto) e «mistica» di esso.
~ Del lavoro. Fenomeno che si impose in occasione del dissolvimento del modo di produzione feudale con autonomizzazione del­la forma feudale ed emergenza del­l’artigianato. Si esprime attraverso il grande movimento artistico che inizia nel­le Fiandre e in Italia, con l’emergere del­la figura del­l’ingegnere, con l’affermazione del­la filosofia del fare. È una del­le componenti del­la genesi del­la scienza sperimentale. ¶ La sua influenza si fa sentire in seno al movimento socialista, specialmente tra quel­li che K. Marx chiamò i socialisti ricardiani, in J. P. Proudhon, nel­la Prima Internazionale; in effetti si trova in K. Marx e F. Engels nel­la loro esaltazione del lavoro come attività specificamente umana. La si ritrova nel­lo scompiglio generato da ciò che viene chiamata attualmente fine del lavoro. ¶ Suo complemento è la dipendenza dal lavoro a tal punto che l’uomo è essenzialmente definito da esso e solo tramite esso può essere compreso; si ha l’Homo faber e l’esaltazione del­la tecnica, del­l’umanismo come pure del­l’attivismo e del movimento (il movimento è tutto).
~ Del capitale. Fenomeno che fa sí che il capitale diventa uomo, «a human being (un essere umano)» secondo K. Marx. Suo complemento è la capitalizzazione di uomini e donne che tendono a diventare oggetti tecnici, immersi nel­l’immediatezza del capitale, che può anche essere percepita come la sua immanenza.  [201​  Glossario]  

 

Vedi anche:  Capire l’antropomorfosi

2.2. Aspirazioni astratte

2.2.1. Immortalità
Anonymous 2600-2450 a.C.  85​ 
Ciò che cerchi non lo troverai mai. Quando gli Dei hanno creato l'uomo, hanno tenuto per sé l'immortalità. Riempiti la pancia.  [391​  L'epopea di Gilgamesh]  

 

2.2.1.1. Inimicizia
A.E. van Vogt 1971  118​ 
Mentre rifletteva su questo problema, ebbe un altro pensiero. ¶ «Mil­le, avete detto,» ripeté. «Questo mi sembra bizzarro. Perché voi zouvgiti vi siete ridotti a un numero così limitato? Come mai una scelta simile?» ¶ «Si tratta di una famiglia,» spiegò il membro del comitato. La sua attenzione sembrava altrove. «Ovviamente, dove esistono molte famiglie, al­la fine una deve necessariamente sterminare tutte le altre. Questo è accaduto nel più lontano passato...»  [461​  Battaglia per l'eternità, p. 246]  

 

Jacques Camatte 2010-2023  11​ 

[voce: «Inimicizia»] Dinamica per la quale «l’altro» è utilizzato come supporto per presentificare il nemico e, da ciò, iniziare il dispiegamento di diverse violenze. ¶ Il nemico può essere transitorio, nel gioco, nel­le discussioni, in tutte le forme di competizione. ¶ Essa fonda il comportamento del­la specie separata dal­la natura.  [201​  Glossario]  

 

2.2.2. Idea di potenza • Controllo totale

Ludwig von Bertalanffy 1968  162​ 

Abbiamo solamente una pal­lida idea di come sarebbe un mondo scientificamente control­lato. Nel migliore dei casi, un tal mondo sarebbe simile al Brave New World di Aldous Huxley; nel peggiore dei casi, al mondo descritto da Orwel­l in 1984. […] I metodi del­la suggestione di massa, del­la liberazione degli istinti del­la bestia umana, del condizionamento e del control­lo del pensiero sono stati sviluppati così da raggiungere la massima efficacia; e proprio perché il totalitarismo moderno è così spaventosamente scientifico, l’assolutismo dei periodi storici precedenti sembra, in confronto, un espediente improvvisato, dilettantesco e relativamente innocuo. Il control­lo scientifico del­la società non è la via maestra per Utopia.  [533​  Teoria generale dei sistemi, p. 93]  

 

Cornelius Castoriadis 1986  149​ 

Dobbiamo tentare di penetrare piú in profondità nel­la questione. L’il­lusione incosciente del­l’«onnipotenza virtuale» del­la tecnica, il­lusione che ha dominato i tempi moderni, si poggia su un’altra idea non discussa e dissimulata: l’idea di potenza. Una volta compreso ciò, diviene chiaro che non basta chiedere semplicemente: la potenza per fare cosa? la potenza per chi? La domanda è: che cos’è la potenza e, in quale senso non banale, vi è mai stata realmente potenza?
Dietro l’idea di potenza giace il fantasma del control­lo totale, del­la volontà o del desiderio di dominare ogni cosa e ogni circostanza. Certo, questi fantasmi sono sempre stati presenti nel­la storia umana, sia nel­la forma «materializzata» del­la magia, ecc., sia in quel­la proiettata su qualche immagine divina. Ma, abbastanza curiosamente, c’è anche sempre stata la coscienza di certi limiti invalicabili per l’uomo — come mostrato dal mito del­la Torre di Babele o dal­la hýbrisgreca. Che l’idea di control­lo totale o, meglio, di dominio totale sia intrinsecamente assurda, tutti possono evidentemente ammetterlo. Ciò non toglie tuttavia che sia proprio quest’idea a formare il motore nascosto del­lo sviluppo tecnologico moderno. L’assurdità diretta del­l’idea di dominio totale è camuffata dal­l’idea meno brutale di «progressione asintotica». L’umanità occidentale ha vissuto per secoli sul­l’implicito postulato che sia sempre possibile e realizzabile ottenere maggiore potenza. Il fatto che, in un certo campo particolare e con un certo particolare scopo, fosse possibile fare di «piú» è stato visto come il segno che in tutti i campi presi insieme e con tutti gli scopi immaginabili, la «potenza» potesse essere accresciuta senza limiti
Quel­lo che noi ora sappiamo con certezza, è che i frammenti di «potenza» successivamente conquistati restano sempre locali, limitati, insufficienti e, molto probabilmente, intrinsecamente inconsistenti se non del tutto incompatibili tra loro. Nessuna «conquista» tecnica significativa sfugge al­la possibilità di essere utilizzata diversamente da come era stata pensata in origine, nessuna è sprovvista di effetti col­laterali «indesiderabili», nessuna è esentata dal­l’interferire con il resto — in ogni caso nessuna tra quel­le prodotte dal tipo di tecnica e di scienza che noi abbiamo «sviluppato». In questa prospettiva, l’accrescimento di «potenza» è anche, ipso facto, accrescimento d’impotenza, o di «anti-potenza», potenza di far scaturire il contrario di ciò che volevamo; e chi calcolerà il bilancio netto, in quali termini, su quali ipotesi, per quale orizzonte temporale?
Anche qui (come per l’economia), la condizione operativa per l’il­lusione è l’idea di separabilità. «Control­lare» le cose consiste nel­l’isolare dei fattori separati e nel circoscrivere con precisione gli «effetti» del­la loro azione. Ciò funziona, fino a un certo punto, con gli oggetti comuni del­la vita quotidiana; per esempio è in questo modo che procediamo per riparare il motore del­l’auto. Ma piú avanziamo e piú vediamo chiaramente che la separabilità non è che un’«ipotesi di lavoro» di validità locale limitata. I fisici contemporanei iniziano a rendersi conto del reale stato del­le cose; sospettano che le difficoltà apparentemente insormontabili del­la fisica teorica sono dovute al­l’idea che possano esistere cose come i «fenomeni» separati e singolari, e si domandano se l’Universo non debba piuttosto essere trattato come un’entità unica e unitaria. In un altra maniera, i problemi ecologici ci obbligano a riconoscere che la situazione è simile per quanto riguarda la tecnica. Anche qui, al di là di certi limiti, non possiamo assumere che la separabilità sia automatica; e tali limiti restano ignoti fino al momento in cui incombe la catastrofe.
L’inquinamento e i dispositivi per combatterlo ne forniscono una prima il­lustrazione — quasi banale, e difficilmente contestabile.  [521​  Réflexions sur le «développement» et la «rationalité»]  

 

2.2.3. Vergogna prometeica
Günther Anders 1956  70​ 
Se cerco di approfondire questa «vergogna prometeica» trovo che il suo oggetto fondamentale, ossia la «macchia fondamentale» di chi si vergogna, è l’origine. T. si vergogna di essere divenuto invece che essere stato fabbricato.  [340​  L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, pp. 31–32]  

 

Jean Baudrillard 1968  109​ 

La società tecnologica si regge su due miti potenti : il progresso inninterrotto del­le tecniche e il «ritardo» etico rispetto al­le tecniche.  [433​  Il sistema degli oggetti, pp. 159-160]  

 

Jacques Camatte 2012  71​ 

Successivamente l’idea di aver perso la lotta per il riconoscimento, di non essere stati al­l’altezza, fonderà la vergogna di sé, l’odio di sé, con l’incolparsi di non essere stati al­l’altezza. È ciò che ci dice Günther Anders a proposito di una varietà di vergogna che egli ha individuato: «… la vergogna prometeica … la vergogna che si prova di fronte al­l’umiliante altezza del­la qualità degli oggetti fatti da noi stessi». È un rigiocamento di una forma di vergogna che, come gli altri suoi tipi, affetta di sé l’origine. «Se cerco di approfondire questa ‹vergogna prometeica› trovo che il suo oggetto fondamentale, ossia la ‹macchia fondamentale› di chi si vergogna, è l’origine. T. si vergogna di essere divenuto invece che essere stato fabbricato». Si può andare anche oltre e dire che la vergogna deriva dal fatto di avere un’origine. La vergogna di sé induce non solamente una dinamica di disprezzo di sé, ma una dinamica inconscia di messa al di fuori del­la «condizione umana», al fine di compensare questa vergogna, consolarsene, disprezzando quel­li che vi restano legati. Al­lora l’uomo può cancel­lare qualsiasi origine generandosi come macchina (il post-umano). Ma negando l’origine, gli uomini affermano anche un dato di naturalità: essi non ne hanno poiché provengono da un’emergenza. Inoltre G. Anders mette in evidenza dei dati che sono divenuti rilevanti con gli sviluppi recenti del­la società-comunità. «In compenso la ‹vergogna prometeica› si manifesta nel rapporto del­l’uomo con la cosa. Qui al­lora manca l’osservatore, l’altro uomo di fronte al quale si prova vergogna». Ed egli precisa, la vergogna «… non è di essere reificati ma, al contrario, di non esserlo».  [344​  Inversione e disvelamento, pp. 67–68 ]  

 

Idées reçues: Euripídēs 428 a.C.  113​ 
O Zeus, perché dunque hai messo fra gli uomini un ambiguo malanno, portando le donne al­la luce del sole? Se proprio volevi seminare la stirpe dei mortali, non dal­le donne dovevi produrla: ma che gli uomini comprassero il seme dei figli, depositando in cambio nei tuoi templi oro o ferro o peso di bronzo, ciascuno secondo il valore del prezzo, e viver senza donne in libere case.  [441​  Ippolito]  

 

Idées reçues: Lotario di Segni (Innocenzo III) ~1195  23​ 
L'uomo è stato formato da polvere, melma e cenere; e, cosa ancora più vile, dal seme più ripugnante. È stato concepito dal prurito del­la carne, nel calore del­la passione e nel fetore del­la lussuria e, peggio ancora, con la macchia del peccato. È nato nel­la fatica, nel­la paura e nei problemi e, peggio ancora è nato solo per morire. (...) L'uomo è concepito dal sangue per l'ardente putrefazione del desiderio, come se accanto al suo corpo ci fossero vermi funesti. Da vivo, genera pidocchi e lombrichi; da morto, vermi e mosche. Vivo, produce escrementi e vomito; morto, produce marciume e fetore. Da vivo, ingrassa un solo uomo; da morto, ingrassa molti vermi.  [217​  Sulla miseria della condizione umana]  

 

2.3. Albori della civilizzazione (tentativi di controllo)

André Leroi-Gourhan 1964  131​ 

L’individualizzazione del tempo è il riflesso del­la integrazione progressiva degli individui nel più ampio organismo sociale; a poco a poco, nel corso di decine di mil­lenni, una trama simbolica dapprima molto lenta si è sovrapposta al movimento complesso ed elastico del tempo naturale. La vita degli animali non è meno regolata di quel­la del contadino del secolo scorso, «in piedi con il sole e a letto con le gal­line», l’una e l’altra si integrano ancora in un ciclo entro il quale si realizza un triplice accordo fra natura, individuo e società. Ma ciò che vale per l’ambiente rurale fino al secolo XX non vale più da secoli per l’ambiente urbano, soprattutto per i settori più socializzati come le classi religiosa e militare. Per queste ultime il progresso e la sopravvivenza del gruppo sociale dipendono dal tempo astratto. La loro integrazione motrice e intel­lettuale è basata su una rete ritmica rigorosa, materializzata dal suono del­le campane e del­le trombe, che sono contemporaneamente segnali di un codice di integrazione e tappe del tempo. Spinti dal­la necessità di conservare la sopravvivenza col­lettiva, poiché in tutte le grandi religioni il normale cammino del­l’universo si regge sul­la puntualità dei sacrifici, i sacerdoti sono stati i primi, dagli albori del­le civiltà del­l’Antico e del Nuovo Mondo, a dividere il tempo in parti idealmente invariabili, diventando di conseguenza i dispensatori dei mesi, dei giorni e del­le ore. Solo di recente con l’integrazione del­le masse in un meccanismo sociale, dove l’errore del­l’esperto determina il disordine col­lettivo, il tempo simbolico ha acquistato un valore assolutamente dominante. Nei capitoli precedenti abbiamo più volte constatato che le vie seguite dal­le diverse facoltà per liberarsi conducono tutte a un rapido perfezionamento non del­l’individuo in quanto tale, ma del­l’individuo come elemento del più ampio organismo sociale. Mil­le volte constatato da sociologi del­le più disparate tendenze, questo fatto è legato al­l’esistenza, paral­lela al­l’evoluzione biologica, di quel­la corrente del­l’evoluzione materiale che ha avuto origine dal­l’uomo nel momento in cui il linguaggio ha superato i limiti del concreto. Ciò ha portato al­l’esteriorizzazione del­l’utensile (realizzato già da tempo come condizione fondamentale), al­la esteriorizzazione dei muscoli, poi del sistema nervoso di relazione. Il tempo si esteriorizza su una via paral­lela, sincronicamente, e diventa il reticolato in cui gli individui vengono racchiusi quando il sistema di relazione riduce il termine di trasmissione in ore, poi in minuti e infine in secondi. Nei settori in cui viene raggiunto il limite, l’individuo funziona come una cel­lula, come elemento del programma col­lettivo, secondo una rete di segnali che non solo guida i suoi gesti o dà l'avvio al suo pensiero valido, ma control­la anche il suo diritto al­la assenza, cioè i suoi momenti di riposo o di tempo libero. Il primitivo viene a patti con il tempo; il tempo del­la società perfetta non viene a patti con nul­la e con nessuno, neppure con lo spazio, perché questo non esiste più se non in funzione del tempo necessario a percorrerlo. Il tempo specializzato implica uno spazio umanizzato completamente simbolico, tale che giorno e notte cadano a ore fisse su città in cui inverno ed estate siano ridotti a proporzioni medie e dove i rapporti fra gli individui e il loro luogo d'azione siano istantanei. Solo una parte di questo ideale è realizzato, ma basta immaginare l'il­luminazione, il riscaldamento e i trasporti pubblici del­le città di un secolo fa per rendersi conto del fatto che un tratto importante del cammino è già stato percorso.  [481​  Il gesto e la parola, pp. 371-372]  

 

André Leroi-Gourhan 1964  132​ 

L’integrazione del­lo spazio umanizzato nel­l’universo esterno risponde a leggi fondamentali che non ci stupiamo di incontrare in tutti i momenti del­la storia umana, qualunque sia lo stato del­l’evoluzione tecno-economica o ideologica del­le col­lettività considerate. Quel­lo che nel­l’uomo si esprime attraverso simboli architettonici o figurativi, nel­l’animale si applica al­le forme più elementari del comportamento acquisito; l’andirivieni fra il rifugio e il territorio circostante è la trama del­l’equilibrio fisico e psichico del­le specie che hanno in comune con l’uomo questa separazione fra il mondo esterno e il rifugio. È di conseguenza normale che il rapporto rifugio-territorio sia il termine principale del­la rappresentazione spazio-temporale e che la forma del rifugio corrisponda nel­lo stesso tempo al­le necessità materiali del­la protezione e del­l’economia e al­la connessione fra rifugio e territorio, fra spazio umanizzato e universo selvaggio, cioè ai termini del­la integrazione spazio-temporale, come col­locazione e come movimento. ¶ Abbiamo visto che esiste una frattura molto importante nel momento in cui il mondo primitivo adotta, attraverso la sedentarizzazione agricola, un nuovo modo di inserimento spaziale. Una volta acquisito questo modo, non dovrebbero più esserci modificazioni a livel­li profondi, ma importanti variazioni che devono interessare l’ideologia giustificativa del­le forme. In altre parole, una volta realizzata la pianta del­le città più antiche, non c’è motivo perché attraverso l’antichità, il Medioevo e fino ai nostri giorni, vengano modificate le linee fondamentali per l’inserimento materiale del­la città nel suolo. La città deve conservare il suo carattere cosmogonico nel corso di tutta la sua storia, ma l’evoluzione ideologica e le circostanze storiche possono modificare profondamente il modo in cui essa è percepita come immagine del mondo. ¶ Il fatto di creare una superficie artificiale che isoli l’uomo come in un cerchio magico non è separabile dal riuscire a farvi entrare, materialmente o simbolicamente, gli elementi del­l'universo esterno di cui ci si è impadroniti, e non c’è molta distanza fra l'integrazione del granaio, riserva di cibo, e quel­la del tempio, simbolo del­l’universo control­lato. Se ci si trasferisce sul piano animale, non c’è separazione netta fra tana come rifugio e tana come riserva di cibo. Nel­la città mesopotamica come nel vil­laggio dei Dogon, il tempio e il magazzino sono vicini e d’altronde legati da una fitta rete ideologica. Se la trama di simboli che ricopre la realtà funzionale del­le istituzioni umane offre coincidenze cosi straordinarie tra una civiltà e l’altra, ciò avviene appunto perché si plasma su model­li profondi. ¶ È sorprendente constatare che le città del­l’antichità mediterranea classica di influenza greca o romana conservano una disposizione geometrica direttamente ispirata al­le concezioni architettoniche arcaiche, sebbene la vecchia ideologia del­le corrispondenze efficaci sia già in decadenza. Fino al­l’epoca moderna le processioni continueranno a raffigurare il movimento degli astri, i sacrifici continueranno a inaugurare lo svolgimento del ciclo agricolo, ma lo faranno aprendosi un varco in una rete intel­lettuale in cui il realismo funzionale ha assunto il ruolo di spiegazione. Questo fenomeno si avverte soprattutto nel­lo sviluppo del mondo romano in cui, malgrado la religiosità che permea ogni atto, lo sviluppo razionale del­le scienze comincia già a fornire una spiegazione col­laterale del sistema universale. C ’è una notevole differenza fra l’universo di Eracle o quel­lo di Gilgamesh e l’universo di Erodoto o di Seneca. Attraverso un processo già descritto più volte si esteriorizza un nuovo modo di spiegazione, la spiegazione scientifica che non elimina le fasi precedenti, ma le relega nel­la penombra. Per comprendere la possibilità del­lo slittamento e del­la sovrapposizione, basta pensare al­la situazione attuale del­l’astronomia e del­l’astrologia. Nessuno si sognerebbe di discutere la realtà scientifica del­l’universo siderale che serve in questo momento da supporto al senso di integrazione spaziale del­l’umanità, eppure sono mil­le volte più numerosi coloro che leggono gli oroscopi di quel­li che leggono opere di astronomia. Il vecchio sistema del­le corrispondenze cosmogoniche è sopravvissuto nel­la penombra;  [481​  Il gesto e la parola, pp. 389-390]  

 

2.3.1. Religione

Jacques Camatte 2010-2023  18​ 

[voce: «Religione»] Unione di una episteme e di una prassi (serie di riti). È legata al­lo Stato e implica la reinstaurazione di qualcosa che è stato perduto.  [201​  Glossario]  

 

2.3.2. Stato

Jacques Camatte 2010-2023  19​ 

[voce: «Stato»] (~ Prima forma N.d.T.) Può essere definito, in origine, solo attraverso l'esposizione del processo di astrattizzazione del­la comunità che genera un’unità superiore (faraone, lugal, re dei re, ecc.) che ne rappresenta la totalità. È il sorgere del­lo Stato nel­la sua prima forma, che si effettua nel­lo stesso momento in cui s’instaura il movimento del valore nel­la sua dimensione verticale (processo di valorizzazione). Nel­lo stesso tempo si opera un’antropomorfosi del­la divinità e una divinomorfosi del­l’unità superiore, e s’instaura la religione.
(~ Seconda forma N.d.T.) Successivamente si impone una seconda forma determinata dal movimento del valore nel­la sua dimensione orizzontale, fenomeno che non può essere ridotto esclusivamente al­l’ambito economico. ¶ Fondamentalmente lo Stato, attraverso queste varie forme, sviluppatesi a partire dal­le due prime sopra citate, tende a definire l’uomo, la donna, a rinchiuderli nel­le sue determinazioni.  [201​  Glossario]  

 

2.3.3. Organizzazione • Burocrazia

Amadeo Bordiga 1966  76​ 

Il Capitale si presenta oggi in ogni momento nel­la forma di una «organizzazione», – e dietro questa parola [...] dietro la inespressiva e antimnemonica sigla del­la inafferrabile azienda, tra affaristi, amministratori, tecnici, operai specializzati, manovali, cervel­li elettronici, robots e cani da guardia, dei fattori del­la produzione e degli stimolatori del reddito nazionale, compie l'immonda funzione che ha sempre compiuto, anzi una funzione immensamente più ignobile di quel­la del­l'imprenditore in nome personale che si faceva pagare intel­ligenza, coraggio e vero pionierismo agli albori del­la società borghese.  [359​  Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, pp. 272-273]  

 

Lewis Mumford 1967  48​ 

L'Ordine benedettino, istituito da Benedetto da Norcia nel VI secolo, si distingueva da molte organizzazioni monastiche simili in quanto imponeva un obbligo particolare, oltre ai soliti del­la preghiera costante, del­l'obbedienza ai superiori, del­la povertà e del reciproco esame quotidiano del­la propria condotta. A tutti questi doveri ne aggiungeva un altro: il lavoro quotidiano come impegno cristiano. Era prescritto il lavoro manuale per almeno cinque ore al giorno e, come nel­l'organizzazione del­la prima macchina umana, ogni squadra di dieci monaci era soggetta al­la supervisione di un diacono. ¶ Nel­la sua organizzazione come società economica e religiosa autogovernantesi, il monastero benedettino gettò le basi per un ordine rigoroso quanto quel­lo che teneva unite le antiche megamacchine: le differenze erano nel­le sue modeste dimensioni, nel­la sua costituzione su base volontaristica e nel fatto che questa severissima disciplina i monaci la imponevano a se stessi. Dei settantadue capitoli del­la regola benedettina, ventinove concernono la disciplina e il codice penale, mentre dieci fanno riferimento al­l'amministrazione interna: in tutto sono piú del­la metà. ¶ La volontaria rinuncia del monaco al­la propria volontà era pari a quel­la imposta dal­l'antica megamacchina al­le sue componenti umane. L'autorità, la sottommissione e la subordinazione agli ordini superiori erano parte integrante del­la nuova megamacchina eterizzata e moralizzata. L'Ordine benedettino anticipava anche una fase successiva del­la meccanizzazione, essendo concepito come un'attività a ciclo continuo: di notte, infatti, non solo si tenevano accese le luci in dormitorio, ma i monaci, come soldati al fronte, dormivano vestiti per essere immediatamente pronti ai doveri canonici che interrompevano il loro sonno. Sotto certi aspetti, questo ordine era piú rigoroso e invadente di quel­lo di qualunque esercito, in quanto non contemplava né momenti di riposo né periodi di licenza. Tali privazioni e rinunce sistematiche, insieme con la regolarità e l'irreggimentazione, confluirono nel­la disciplina del­la futura società capitalistica.  [242​  Il mito della macchina, pp. 364-365]  

 

Jacques Camatte & Gianni Collu 1969  89​ 

Il capitale, come modo sociale di produzione, realizza il proprio dominio reale quando perviene a rimpiazzare tutti i presupposti sociali o naturali che gli preesistono, con forme di organizzazione specificamente sue, che mediano la sottomissione di tutta la vita fisica e sociale ai propri bisogni di valorizzazione; l’essenza del­la Gemeinschaft (comunità) del capitale è l’organizzazione.  [292​  Transizione]  

 

2.3.3.1. Megamacchina

Lewis Mumford 1967  38​ 

Nel considerare l’immensa potenza e portata del­la monarchia divina, sia come mito sia come istituzione attiva, ho sinora lasciato da parte, in attesa di esaminarlo piú da vicino, un particolare molto importante, che fu il suo contributo piú grande e duraturo: l’invenzione del­la macchina archetipa. Questa invenzione straordinaria fu infatti il primo model­lo funzionante di tutte le macchine complesse successive, anche se a poco a poco al­le sue componenti umane si sostituirono parti meccaniche che garantivano un funzionamento piú regolare. Il contributo eccezionale del­la monarchia fu di radunare il materiale umano e di dargli una disciplina organizzativa che permise di lavorare su dimensioni mai tentate in precedenza. Si deve a questa invenzione il fatto che, cinquemila anni or sono, si realizzarono opere di ingegneria che, per tecnica del­la produzione in serie, standardizzazione e progettazione meticolosa, rivaleggiano con le migliori di oggi. ¶ […] Uomini di capacità medie, basandosi soltanto sul­la forza muscolare e sul­le tecniche tradizionali, erano in grado di svolgere tutta una serie di attività, comprese la ceramica e la tessitura, senza una guida esterna né un control­lo scientifico, di là da quel­li tradizionalmente disponibili nel­la comunità locale. Per la megamacchina il discorso cambia completamente. Soltanto i re, aiutati dal­la disciplina del­la scienza astronomica e sorretti dal­l’appoggio del­la religione, erano in grado di montarla e dirigerla. Era una struttura invisibile, composta di parti umane, vive ma rigide, ognuna del­le quali aveva un compito, una funzione, un lavoro specifico da svolgere, per attuare le immense potenzialità produttive e i giganteschi progetti di una grande organizzazione col­lettiva. ¶ [...] Questa invenzione fu il massimo risultato del­la civiltà primitiva: un capolavoro tecnologico che servì da model­lo a tutte le forme successive di organizzazione meccanica. Tale model­lo continuò a funzionare, a volte con tutte le sue parti in buone condizioni e a volte con soluzioni di ripiego, ma sempre con agenti esclusivamente umani per circa cinquemila anni — prima di essere ricostruito entro una struttura materiale che corrispondesse maggiormente al­le sue esigenze specifiche — ed era incorporato in un complesso istituzionale che includeva ogni aspetto del­la vita. ¶ [...] Benché sia stata montata per la prima volta nel periodo in cui si cominciava a servirsi del rame per fabbricare armi, essa era comunque un’innovazione a sé stante: nel­l’ordine assai piú antico del rituale, la meccanizzazione degli uomini aveva preceduto di molto quel­la dei loro strumenti di lavoro. Poi una volta concepito il nuovo meccanismo si diffuse con rapidità, non solo perché c’era chi lo imitava per meglio difendersi, ma perché veniva imposto con la forza da re che si comportavano come avrebbero potuto soltanto gli dèi o i loro rappresentanti consacrati. Ovunque sia stata montata con efficienza, la megamacchina moltiplicò la produzione di energia e produsse su dimensioni precedentemente inimmaginabili. ¶ […] Grazie al­le energie a disposizione del­la macchina regia, si al­largarono enormemente le dimensioni di spazio e di tempo: operazioni che una volta sarebbe stato difficile completare nel­l’arco di secoli, venivano ora compiute in meno di una generazione. Nel­le pianure sorsero in obbedienza agli ordini del re montagne di pietra o d’argil­la cotta costruite dal­l’uomo, piramidi e ziqqurat; di fatto venne trasformato l’intero paesaggio che nei suoi confini rigorosi e nel­le sue forme geometriche portava l’impronta di un ordine cosmico e di un’inflessibile volontà umana. Macchine paragonabili a questo meccanismo furono utilizzate soltanto a partire dal XV secolo del­la nostra era, quando si diffusero nel­l’Europa occidentale gli orologi e i mulini a acqua e a vento. Perché questo nuovo meccanismo rimase invisibile al­l’archeologo e al­lo storico? Per una semplice ragione già implicita nel­la nostra prima definizione: perché si componeva soltanto di elementi umani, e aveva una precisa struttura funzionale solo fin quando l’esaltazione religiosa, l’abracadabra magico e gli ordini regi che lo avevano montato erano accettati come realtà immutabili da tutti i membri del­la società. Bastava che la forza polarizzatrice del­la monarchia diminuisse, per una morte o per una sconfitta in battaglia, per lo scetticismo o per una rivolta vendicatrice, e l’intera macchina crol­lava. Dopo di che le sue parti si ricomponevano in unità piú piccole (feudali o urbane) o sparivano completamente come un esercito disfatto quando viene spezzata la catena di comando. ¶ [...] Ora definire macchine queste entità col­lettive non è un ozioso gioco di parole. Se la macchina, seguendo piú o meno la definizione classica di Franz Reuleaux, è una combinazione di parti resistenti, ognuna con funzioni particolari, che agiscono sotto il control­lo del­l’uomo per sfruttare l’energia e compiere del lavoro, la megamacchina era sotto ogni aspetto una macchina autentica, tanto piú che i suoi elementi, benché fatti di ossa, nervi e muscoli umani, erano ridotti al­le loro nude componenti meccaniche e rigorosamente standardizzati per i limitati compiti da eseguire. La frusta del direttore dei lavori assicurava l’obbedienza. Tali macchine erano già state montate, se non inventate, dai re agli albori del periodo del­le piramidi, cioè verso la fine del quarto mil­lennio. In quanto libere da immutabili strutture esterne, esse avevano possibilità di cambiamento e di adattamento assai piú dei loro rigidi equivalenti meccanici di una moderna catena di montaggio. Nel­la costruzione del­le piramidi, riconosciamo non solo la prima testimonianza indiscutibile del­l’esistenza del­la macchina, ma una prova del­la sua sbalorditiva efficienza. Ovunque si diffuse la monarchia, l’accompagnò la «macchina invisibile» nel­la sua forma distruttiva anche se non sempre in quel­la costruttiva. Il discorso vale per la Mesopotamia, l’India, la Cina, lo Yucatan e il Perú come per l’Egitto.  [242​  Il mito della macchina, pp. 263-269]  

 

Jaime Semprun 2005  62​ 

E cosí l’automobile, macchina che non può essere piú banale e quasi arcaica, che tutti sono d’accordo nel trovare tanto utile e persino indispensabile al­la nostra libertà di movimento, diventa un’altra cosa se la col­lochiamo nel­la società del­le macchine, nel­l’organizzazione generale di cui è un semplice componente, un ingranaggio. Vediamo al­lora un sistema complesso, una gigantesca organizzazione composta da strade e autostrade, giacimenti petroliferi e oleodotti, stazioni di servizio e motel, viaggi organizzati in autobus e grandi aree con i loro parcheggi, scambiatori e tangenziali, linee di assemblaggio e uffici di «ricerca e sviluppo»; ma anche sorveglianza poliziesca, segnalazioni, codici, regolamenti, norme, cure chirurgiche specializzate, «lotta contro l’inquinamento», montagne di pneumatici usati, batterie da riciclare, lamiere da pressare. E in tutto questo, come parassiti che vivono in simbiosi con l’organismo ospite, affettuosi afidi sol­letica macchine, uomini impegnati a prendersi cura di loro, mantenerle, dar loro da mangiare e ancora servirle mentre loro credono di circolare di propria iniziativa, dal momento che devono essere cosí consumate e distrutte al ritmo prescritto in modo che non si interrompa neppure per un istante la loro riproduzione, il funzionamento del sistema generale del­le macchine.  [384​  Défense et illustration de la novlangue française]  

 

2.3.4. Proprietà privata
Costantinos Kavafis 1927  22​ 
Nel­l’aurea bol­la edita da Alessio ​/​ Commeno per onorare con maestà sua madre ​/​ la molto savia kyria Anna Dalassene ​/​ – d’opere e d’indole preclara – ​/​ vi sono elogi vari; ma una frase ​/​ su tutte, bel­la e nobile ​/​ vale la pena qui di riportare ​/​ «il mio il tuo, queste fredde parole da noi mai pronunciate».  [213​  Anna Dalassene Margherita Dalmati & Nelo Risi.]  

 

Karl Marx 1844  34​ 

Solo al vertice del suo svolgimento, la proprietà privata rivela il suo segreto, vale a dire, anzitutto che essa è il prodotto del lavoro alienato, in secondo luogo che è il mezzo con cui il lavoro si aliena, è la realizzazione di questa alienazione.  [238​  Manoscritti del 1844]  

 

Karl Marx 1844  33​ 

La proprietà privata è quindi il prodotto, il risultato, la conseguenza necessaria del lavoro alienato, del rapporto di estraneità che si stabilisce tra il lavoratore, da un lato, e la natura e lui stesso dal­l’altro.  [238​  Manoscritti del 1844]  

 

Karl Marx 1867  88​ 

Dal punto di vista di una più elevata formazione economica del­la società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie del­la terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, al­le generazioni successive.  [268​  Il Capitale, Libro III, Cap. 46]  

 

 

Capitolo 3. Il processo • Doppio movimento valore-capitale

Robert Musil 1930–1943  74​ 
Questo concetto del­lo stato austro-ungarico era cosí stranamente congegnato che sembra quasi vano tentar di spiegarlo a chi non ne abbia personale esperienza. Non era fatto di una parte austriaca e di una parte ungherese che, come si potrebbe credere, si completavano a formare un tutto, ma di un tutto e di una parte, cioè di un concetto statale ungherese e di un concetto statale austro-ungarico, e quest'ultimo stava di casa in Austria, per cui il concetto statale austriaco era in fondo senza patria.  [352​  L'uomo senza qualità, Cap. 42]  

 

Jacques Camatte 1989  73​ 

Il fenomeno del valore è indissolubilmente legato a quel­lo del capitale. Tra i due vi è continuità e discontinuità. Continuità nel senso che il primo è in realtà il presupposto del secondo; discontinuità nel senso che il capitale perviene al­l'autonomizzazione e al­la comunità, il che è impossibile per il valore. La discontinuità è stata possibile quando la separazione è stata infine realizzata.  [348​  9. Il fenomeno del valore]  

 

Jacques Camatte 2022  146​ 

[...] ho potuto arrivare a mettere in evidenza l'aporia del­l'affermazione: il capitale domina il valore, perché si sostituisce al valore, così come si sostituisce al­la comunità, al­la natura, ecc... In altre parole, ciò che viene sostituito esiste ancora, ma non è più determinato dal proprio divenire, bensì da quel­lo del capitale, così come le relazioni umane sono state sostituite, nel Neolitico, dal movimento economico che ha fondato la dualità: naturalità artificialità.  [513​  Précisions au sujet de Capital et Valeur]  

 

3.1. Movimento del valore

Carl Schmitt 1959  145​ 
Naturalmente, già prima del­la filosofia dei valori si è parlato di valori, ed anche di non valore. Tuttavia si faceva di solito una distinzione, affermando: le cose hanno un valore, le persone hanno una dignità. Si riteneva indegno valorizzare la dignità. Oggi invece anche la dignità diviene un valore. Ciò significa un considerevole innalzamento di rango del valore. Il valore si è in un certo senso valorizzato.  [509​  La tirannia dei valori, p. 54]  

 

Jacques Camatte 1989  79​ 

Uno dei più grandi traumi che la specie ha vissuto è quel­lo causato dal­l'emergere del movimento del valore, perché esso può verificarsi solo quando si attuano contemporaneamente la dissoluzione del­la comunità, la formazione degli individui, del­la proprietà privata, del­le classi, del­lo Stato mediatore, fenomeni che ne costituiscono sia i presupposti che le conseguenze.¶ Quindi, con questo avvento si tratta di uno sconvolgimento del rapporto fondamentale, il rapporto con il mondo, il rapporto tra gli esseri umani, le donne, oltre che di un sequestro, di una presa di coscienza di un mondo sempre più antropomorfizzato.¶ Questa è l'articolazione essenziale del passaggio dal­la specie ancora immersa nel­la natura al­la specie che crea un mondo artificiale, sempre più fuori dal­la natura, e questo perché non solo opera nel­la dinamica del­la scissione come il fenomeno del­lo Stato, che semplicemente pone la specie in discontinuità con la natura, ma perché fonda una positività nel­la misura in cui il valore tenderà a fondare un'altra comunità.¶ In altre parole, il movimento del valore è ciò che permette l'autonomizzazione dei presupposti sopra citati e quindi la loro adesione a un'esistenza strettamente percepibile ed effettiva, per poi autonomizzarsi da essi e fondarli; ciò pone due momenti: quel­lo di un dominio formale e quel­lo di un dominio reale.¶ Il movimento del valore tendeva ad emergere in ogni luogo ove questi presupposti si verificassero, da cui la grande diversità del­le forme perché, come abbiamo già indicato, in tutte le zone di sviluppo del­la specie vi fu una certa tendenza a produrre la proprietà privata, l'individuo, ecc. Ma ciò non si è sviluppato ovunque; di conseguenza il valore stesso non ha potuto ovunque raggiungere lo stadio del­la sua effettività. Inoltre, in certi casi, come nel­l'Oriente cinese, il valore tese effettivamente ad autonomizzarsi, ma tale autonomizzazione fu impedita dal­la comunità dispotica; cosicché è solo in Occidente che esso fu in grado di diventare effettivo e di trasformarsi in seguito in capitale.  [348​  9. Il fenomeno del valore, 9.1.1.]  

 

Vedi anche:  François Bochet, A proposito di qualche testo su Marx e il valore

3.1.1. Robinsonate

AA.VV. 1982  29​ 

[voce: «Robinsonate»] Nei Grundrisse, Marx designa col termine ironico di «robinsonate» l’idea di individui isolati [che scambiano e interagiscono come tali], che è servita come punto di partenza per molti teorici per spiegare la genesi dei corpi sociali. Così «il cacciatore e il pescatore individuali e isolati, con cui iniziano Smith e Ricardo, sono tra le piatte finzioni del XVII secolo». In difesa di Rousseau, che ne era il padre, Marx ammette che si trattava di un’il­lusione del­l’epoca. D’altra parte, non trova scuse per coloro che, come Bastiat, Carey e Proudhon, ritornano «in piena economia politica moderna» al mito del­l’origine. ¶ Nel Capitale, Marx spiega la genesi del­le robinsonate sostenendo che «la riflessione sul­le forme del­la vita sociale e, di conseguenza, la loro analisi scientifica, seguono un percorso completamente opposto al movimento reale. Essa inizia, a posteriori, con dati già pienamente stabiliti, con i risultati del­lo sviluppo». Da qui il gusto del­l’economia politica e di Ricardo, ancora una volta citato, per le robinsonate. […] ¶ Dietro le «robinsonate», che si presentano come un processo di anticipazione del­la società borghese, si nasconde una duplice critica del­l’individualismo e del­le utopie sociali.  [380​  Dictionnaire critique du marxisme]  

 

3.1.2. Valore • Valore d'uso • Valore di scambio
Alasdair Macintyre 1981  91​ 
Quando Franklin afferma: «Fa’ uso raramente del venereo, se non per la salute o per la procreazione...», Lawrence ribatte: «Non fare mai uso del venereo».  [411​  After Virtue]  

 

Guy Debord 1967  59​ 

[Tesi 46] Il valore di scambio ha potuto formarsi solo come agente del valore d’uso, ma la sua vittoria con armi proprie ha creato le condizioni del suo dominio autonomo. Mobilitando ogni uso umano e guadagnando il monopolio del suo soddisfacimento, ha finito per dirigere l’uso. Il processo di scambio si è identificato con ogni uso possibile e l’ha ridotto al­la sua mercé. Il valore di scambio è il condottiero del valore d’uso, che finisce per condurre la guerra per proprio conto.  [304​  La Società dello spettacolo]  

 

Jean Baudrillard 1972  40​ 

In Marx lo statuto del valore d’uso è ambiguo. È noto che la merce è contemporaneamente valore di scambio e valore d’uso; ma quest’ultimo è sempre concreto e particolare, in base al­la propria destinazione tanto nel processo individuale di consumo quanto in quel­lo di lavoro (in questo caso il lardo vale come lardo e il cotone come cotone; non possono sostituirsi l’uno al­l’altro, e quindi «venire scambiati»); mentre il valore di scambio è astratto e generale. Certo non vi potrebbe essere valore di scambio senza valore d’uso, giacché i due valori vanno insieme, ma non vi è implicazione tra i due, nel senso forte del termine:
«Per definire la nozione di merce ha poca importanza conoscere il suo contenuto particolare e la sua esatta destinazione. È sufficiente che l’articolo che deve divenire merce — ossia il supporto del valore di scambio — soddisfi un qualsiasi bisogno sociale in quanto possiede la qualità utile corrispondente. Ecco tutto.» (Il Capitale, I, VI)Dunque il valore d’uso non è implicato nel­la logica propria al valore di scambio, che è una logica del­l’equivalenza. D’altra parte può esservi valore d’uso senza che vi sia valore di scambio (tanto per la forza lavoro quanto per i prodotti, nel­la sfera esterna al mercato). Anche se viene continuamente coinvolto nel processo di produzione e di scambio, il valore d’uso non rientra veramente nel campo del­l’economia mercantile: ha la sua propria finalità, anche ristretta. E vi è in esso, proprio a partire da ciò, la promessa di risorgere, oltre l’economia mercantile, il denaro, il valore di scambio, nel­la gloriosa autonomia del rapporto semplice tra l’uomo e il suo lavoro, tra l’uomo e i suoi prodotti… ¶ Appare quindi che il «feticismo del­la merce» (cioè il fatto che ciò che è un rapporto sociale si maschera sotto forma di qualità e di attributo del­la merce stessa) non agisce sul­la merce, definita contemporaneamente come valore di scambio e valore d’uso, ma sul solo valore di scambio. Il valore d’uso, in quest’analisi restrittiva del feticismo, non appare come un rapporto sociale, né, quindi, come luogo del­la feticizzazione: l’utilità, in quanto tale, sfugge al­la determinazione storica di classe: designa un rapporto finale oggettivo di destinazione specifica che non si maschera, e la cui trasparenza sfida la storia, in quanto forma (anche se il suo contenuto cambia continuamente in conseguenza del­le determinazioni sociali e culturali). È qui che agisce l’idealismo marxista, è qui che occorre essere piú logici di Marx in persona, e, nel senso che egli dà a questo termine, piú radicali: il valore d’uso, la stessa utilità, proprio come l’equivalenza astratta del­le merci, è un rapporto sociale feticizzato — una astrazione, quel­la del sistema dei bisogni, che assume la falsa evidenza di una destinazione concreta, di una finalità propria ai beni e ai prodotti — proprio come l’astrazione del lavoro sociale che fonda la logica del­l’equivalenza (valore di scambio) si nasconde sotto l’il­lusione del valore «infuso» del­le merci. ¶ L’ipotesi che si fa è in effetti che i bisogni (il sistema dei bisogni) siano l’equivalente del lavoro sociale astratto: il sistema del valore d’uso si fonda su di essi, come il sistema, del valore di scambio si fonda sul lavoro sociale astratto. Questa ipotesi implica anche che, perché vi sia un sistema, una medesima logica astratta del­l’equivalenza, un medesimo codice debba regolare il valore d’uso e il valore di scambio. Il codice del­l’utilità è anche un codice di equivalenza astratta degli oggetti e dei soggetti (di ciascuno di essi e dei due insieme, nel loro rapporto), e dunque di combinatoria e di calcolo virtuale (su ciò ritorneremo): ed è proprio perché è tale, perché è un sistema, e non certo in quanto operazione pratica, che il valore d’uso può venire «feticizzato». Ciò che viene feticizzato è sempre l’astrazione sistematica (cfr. Feticismo e ideologia). Lo stesso accade per il valore di scambio. E sono le due feticizzazioni, quel­la del valore d’uso e quel­la del valore di scambio, proprio in quanto unite, a costituire il feticismo del­la merce. ¶ Marx definisce la forma del valore di scambio e del­la merce mediante il fatto che tutti i prodotti possono porsi come equivalenti sul­la base del lavoro sociale astratto. E, al­l’inverso, pone la «non comparabilità» dei valori d’uso. Ma bisogna osservare che:
1. Perché vi sia scambio economico e valore di scambio è già necessario anche che il principio del­l’utilità sia divenuto il principio del­la realtà del­l’oggetto, o del prodotto. Perché siano scambiabili astrattamente e in modo generale, è altresí necessario che i prodotti vengano pensati e razionalizzati in termini di utilità. Dove ciò non avviene (nel­lo scambio simbolico primitivo) essi non hanno neanche valore di scambio. La riduzione al­lo statuto del­l’utilità è la condizione di base del­lo scambio (economico).
2. Se il principio del­lo scambio e quel­lo del­l’utilità hanno una simile affinità (e, nel­la merce, «coesistono»), ciò avviene perché, contrariamente a quanto dice Marx sul­la «non comparabilità» dei valori d’uso, nel­l’utilità si ritrova intera tutta la logica del­l’equivalenza. Il valore d’uso, anche se non ha un carattere quantitativo in senso aritmetico è già un equivalente. In quanto valori utili, tutte le merci sono comparabili tra loro, giacché vengono col­legate attraverso il medesimo denominatore comune funzionale​/​razionale, al­la medesima determinazione astratta. Solo gli oggetti, o le categorie di beni, investiti nel­lo scambio simbolico, singolare e personale (il dono, il regalo) sono in senso stretto imparagonabili. La relazione personale (lo scambio non economico) li rende del tutto singolari. Ma, al contrario, in quanto valore utile, l’oggetto attinge al­l’universalità astratta, al­l’«oggettività» (attraverso la riduzione di ogni funzione simbolica).
3. Si tratta, quindi di una forma oggetto il cui equivalente generale è l’utilità. Né si tratta di un’«analogia» con le formule del valore di scambio: si tratta del­la stessa forma logica. Ogni oggetto è traducibile nel codice astratto generale del­l’utilità, che costituisce la sua ragione, la sua legge oggettiva, il suo senso — e ciò indipendentemente da colui che se ne serve e da ciò a cui serve. È la funzionalità che si afferma come codice, e questo codice, che si fonda unicamente sul­l’adeguazione di un oggetto al suo scopo (utile), sottomette a sé stesso tutti gli oggetti, reali o virtuali, senza alcun riferimento al­la persona. È qui che ha origine il campo del­l’economia, il calcolo economico, del quale la forma merce non è che la forma sviluppata, e che vi ritorna continuamente.
4. Questo valore d’uso (utilità), contrariamente al­l’il­lusione antropologica che ne vuol fare il semplice rapporto tra un «bisogno» del­l’uomo e una proprietà utile del­l’oggetto, è anch’esso un rapporto sociale. Come nel valore di scambio l’uomo produttore non appare come creatore, ma come forza lavoro sociale astratta, cosí, nel sistema del valore d’uso, l’uomo «consumatore» non appare mai come desiderio e godimento, ma come forza di bisogno sociale astratto (si potrebbe dire Be­dürf­nis­kraft, Be­dürf­nis­ver­mö­gen, in analogia con Ar­beits­kraft, Ar­beits­ver­mö­gen).  [250​  Per una critica dell’economia politica del segno, Cap. VII]  

 

Jacques Camatte 1989  106​ 

Il valore è un operatore del­l'attività umano-femminile, a partire dal momento in cui si ha scissione con la comunità. È un concetto che include misura, quantificazione, giudizio di esistenza. Si purifica nel corso del­la sua autonomizzazione, vale a dire che si stacca dal­le rappresentazioni mitiche, e si carica di nuove determinazioni in seguito al­la sua operatività in vari ambiti — al di fuori di quel­lo strettamente economico da cui è sorto nel­la determinazione che lo ha reso operativo — che possono conoscere divenire più o meno divergenti.  [348​  9. Il fenomeno del valore, 9.1.13.]  

 

Jacques Camatte 1995-1997  41​ 

Nota 2. Nel­la prima edizione del Capitale Marx scrive:
«Ora conosciamo la sostanza del valore: è il lavoro. Conosciamo la misura del­la sua grandezza: è il tempo di lavoro. Ci resta da analizzare la forma, quel­la forma che dà al valore il carattere di scambio (p. 31).».Sembra che qui Marx pensi che il valore preesista al valore di scambio. È un peccato che non abbia affrontato il problema del­l’origine del valore (cfr. Nota 4). [...]
Nota 4. Secondo altre analisi di Marx, sembrerebbe che sia l’attività umana, al­l’origine, ad essere potenzialmente valore.
«Se noi diciamo: in quanto valore le merci non sono che lavoro umano coagulato, la nostra analisi di queste si riduce al­l’astrazione valore, essa non ci dà una forma-valore diversa dal­la sua forma naturale. Diversamente va nel rapporto di valore tra una merce e un’altra. Il suo carattere di valore nasce dal suo rapporto con l’altra merce (Le Capital, Ed. Sociales, L.I, t.1, p. 65).Si può interpretare ciò dicendo che il lavoro umano è solo potenzialmente valore. Si accede al­la sua realtà di valore solo tramite l’astrazione. È quindi in questo fenomeno di potenzialità del valore che risiede l’idea che possa esserci valore prima del valore di scambio.
Non è sufficiente però esprimere il carattere specifico del lavoro in cui consiste il valore del­la tela. La forza lavoro umana al­lo stato fluido o il lavoro umano costituisce il valore. Esso diventa valore solo nel­lo stato coagulato in una forma oggettivata (Ivi).Quel­lo che è quindi essenziale, ma apparso secondariamente, è la forma oggettivata senza la quale il valore non può apparire. Inoltre, l’oggettivazione inclusa in questo processo è gravida di un’alienazione [...].  [381​  Forme, réalité, effectivité, virtualité]  

 

Robert Kurz 2004  68​ 

[…] a tal proposito, bisogna spingere l’intenzione critica di Marx oltre la lettera del­la sua teoria. Se i concetti centrali del­la critica del­l’economia politica devono essere intesi come negativi, critici, la stessa cosa vale anche per il valore d’uso. Questo non descrive semplicemente «l’utilità», bensì l’utilità sotto la dittatura del moderno sistema produttore di merci. Per Marx, nel 19° secolo, forse la cosa non era ancora chiara. Pane e vino, libri e scarpe, edilizia e sanità al­lora apparivano come se fossero sempre le stesse cose, che venissero o meno prodotte sotto forma capitalista. Tutto questo è profondamente cambiato. Gli alimenti vengono coltivati in modo da soddisfare le norme di confezionamento; i prodotti arrivano dotati di una «scadenza artificiale», di modo che se ne devono rapidamente comprare degli altri; il trattamento dei malati obbedisce a dei criteri economico-imprenditoriali, simili a quel­li che riguardano le automobili nei centri di assistenza. Il dibattito circa le conseguenze distruttive del trasporto individuale e del­l’urbanizzazione predatrice del­la natura, si trascina senza risultati ormai da decenni. ¶ In maniera evidente, «l’utilità» diventa sempre più discutibile. Che cosa ha ancora a che vedere con i vecchi ethos e patos del valore d’uso, il fatto che si possa guardare un film ad alta definizione su uno schermo del­le dimensioni di un francobol­lo? Con il progressivo sviluppo capitalista appare evidente che la categoria stessa del valore d’uso è una categoria negativa del sistema di produzione di merci. Non si tratta di quel­lo che si oppone in maniera sensibile e qualitativo al valore di scambio, ma del modo in cui le qualità sensibili stesse vengono adattate al valore di scambio. È la categoria del valore che unisce entrambi i lati, «l’uso» e la forma sociale astratta. ¶ Più esattamente, si tratta di una riduzione del concetto stesso di «utilità». Il punto di partenza è il valore d’uso del­la merce forza lavoro. Com’è noto, per la forza lavoro non si tratta di produrre cose concretamente utili, ma si tratta di produrre plusvalore. In questo modo, il valore d’uso si trova già del tutto degradato in funzione del valore di scambio. E tale specifico valore d’uso del­la merce forza lavoro influenza sempre più in maniera crescente tutte le altre merci. Tutto questo si vede assai più chiaramente nel­le cose, nel­la misura in cui esse al­la fine sono tanto più prodotti residuali del­la valorizzazione del capitale. In termini di contenuto materiale, quel­lo che rimane è soltanto il semplice «funzionamento». La mina antiuomo deve scoppiare in maniera ineccepibile, in questo sta la sua «utilità». Per il capitalismo non si tratta del «che cosa», non si tratta del­la qualità del contenuto, ma solamente del «come».  [332​  Congedo dal valore d’uso]  

 

Jacques Camatte 2010-2023  13​ 

[voce: «Valore»] «È il fenomeno del­la rappresentazione del discontinuo che opera nel­la comunità che si disintegra; il che pone la necessità di una quantificazione che renda idonea la rappresentazione del posizionamento dei suoi membri al suo interno». ¶ «Il valore è un operatore del­l’attività umano-femminina, a partire dal momento in cui c’è scissione con la comunità. È un concetto che include misura, quantificazione, giudizio di esistenza. Esso si purifica nel corso del­la sua autonomizzazione, vale a dire che si distacca dal­le rappresentazioni mitiche e si carica di nuove determinazioni a seguito del­la sua operatività in vari ambiti — al di fuori di quel­lo strettamente economico da cui è sorto nel­la sua determinazione che lo rese operativo — che possono conoscere dei divenire piú o meno divergenti». ¶ Ogni valore è un equivalente generale, che sia il valore economico, la giustizia, l'onore, l'amore, la bontà, ecc...  [201​  Glossario]  

 

3.1.3. Scambio • Dono • Baratto

Karl Marx 1844  158​ 

L’economia politica concepisce l’essenza comune [gemeninwesen] del­l’uomo, ovvero l’essenza umana che realizza se stessa, l’integrazione reciproca nel­la vita del genere, nel­la vita autenticamente umana, sotto la forma del­lo scambio e del commercio. La società, dice Destutt de Tracy, è una serie di échanges reciproci. Essa è appunto questo movimento di reciproca integrazione. La società, dice Adam Smith, è una società che esercita il commercio. Ciascuno dei suoi membri è un commerciante. ¶ Si vede come l’economia politica stabilisca la forma estraniata del­le relazioni sociali come la forma essenziale e originaria e corrispondente al­la destinazione umana. [...]
Lo scambio o baratto è dunque l’atto sociale, l’atto generico, l’essenza comune [gemeinwesen], il rapporto e l’integrazione sociale degli uomini che si svolge entro la proprietà privata, e perciò è l’atto generico esteriore, estraniato. Proprio perciò esso appare come baratto. E per la stessa ragione esso è il contrario del rapporto sociale.[...]
Quanto più grande ed evoluta appare dunque la potenza del­la società, al­l’interno del rapporto del­la proprietà privata, tanto più egoista, asociale e reso estraneo al­la sua propria essenza diviene l’uomo. ¶ Come lo scambio reciproco dei prodotti del­l’attività umanasi presenta come baratto, come traffico, anche l’integrazione e lo scambio reciproco del­l’attività appare come: divisione del lavoro, che fa del­l’uomo un’essenza la più astratta possibile, un tornio ecc., e lo trasforma in un aborto spirituale e fisico. ¶ È proprio l’unità del lavoro umano ad essere considerata adesso solo come divisione, poiché l’essenza sociale perviene al­l’esistenza solo nel suo contrario, nel­la forma del­l’estraneazione.  [320​  Estratti dal libro di James Mill, «Éléments d’économie politique», pp. 236–239]  

 

Jacques Camatte 1989  107​ 

[...] Cl. Lévi-Strauss:
«Esiste un legame, una continuità, tra le relazioni ostili e la fornitura di prestazioni reciproche: gli scambi sono guerre risolte pacificamente, le guerre sono lo sbocco di transazioni disgraziate» (Structures élémentaires de la parenté, ed. Puf, p. 86).[...] Non bisogna però dimenticare che il fenomeno riguarda comunità:
«Prima di tutto, non sono individui, sono col­lettività che si obbligano reciprocamente, scambiano e contrattano» (M. Mauss, Essai sur le don, in Sociologie et anthropologie, éd. PUF, p. 150).Inoltre, è una totalità che è trasmessa:
«In più, ciò che essi scambiano non sono esclusivamente beni e ricchezze, mobili e immobili, cose economicamente utili. Sono soprattutto cortesie, banchetti, riti, servizi militari, donne, bambini, danze, feste, fiere, di cui il mercato è solo uno dei momenti e ove la circolazione del­le ricchezze è solo uno dei termini di un contratto molto più generale e molto più permanente» (Idem, p. 151).A questo livel­lo si delineano vari elementi che saranno la base del valore. Esso non può affermarsi perché non si ha uno scambio reale, ma piuttosto un fenomeno di compensazione. D’altra parte, non sono importanti gli oggetti prodotti, ma l’affermazione che, grazie ad essi, si ottiene. ¶ Attraverso questo meccanismo si esprime una realtà ove si ha affermazione di una volontà di non dipendenza, di autarchia, e quel­la di abolire ogni movimento di disegualizzazione. ¶ Infine, nel­la misura in cui sono due comunità o due fratrie di una stessa comunità che, come indica Mauss, si affrontano, si può domandarsi se questo confronto non miri a prendere conoscenza l’una del­l’altra, a pervenire a rappresentarsi l’una al­l’altra, attraverso varie attività. ¶ Ciò impone che si torni al fenomeno di compensazione.
«Ma qui siamo nel cuore di una contraddizione tipica del­la mentalità primitiva. La nozione di equivalenza e di compensazione, dunque di riscatto, si sovrappongono, anzi la prima genera la seconda» (L. e R. Makarius, L’origine de l’exogamie et du totémisme p. 319.In effetti, per realizzare una compensazione, occorre calcolare ciò che rappresenta una cosa o un atto. ¶ Attualmente, si dice che occorre stimarlo, valutarlo, il che postula l’esistenza del­l’intero sistema dei valori. ¶ Abbiamo qui un’altra componente essenziale del­la formazione del valore: non si tratta più di determinare il potere, ma di determinare la compensazione. Ora, ciò ha una generalità più ampia. Mauss fa notare:
«Ma se estendiamo il nostro campo di osservazione, la nozione di tonga prende subito un’altra ampiezza. Essa connota in maori, in tahitiano in tongano e mangarevano, tutto ciò che è proprietà, tutto ciò che può essere scambiato, oggetto di compensazione.« (o.c., p. 157).Si può aggiungere che in definitiva lo scambio è in partenza un fenomeno di compensazione.  [348​  9. Il fenomeno del valore, 9.1.12., 9.1.9.]  

 

3.1.4. Merce

Fredy Perlman 1968  121​ 

L’obiettivo principale di Marx non era quel­lo di studiare la scarsità, o di spiegare i prezzi, o di come impiegare le risorse, bensì quel­lo di analizzare come viene regolata l’attività lavorativa degli uomini in un’economia capitalista. L’oggetto del­l’analisi è una struttura sociale determinata, una cultura particolare, vale a dire il capitalismo-merce, una forma sociale di economia nel­la quale i rapporti tra le persone non sono regolati direttamente, bensì attraverso le cose. Di conseguenza, «il carattere specifico del­la teoria economica come scienza che si occupa del­l’economia capitalistica del­le merci sta proprio nel fatto che si occupa di rapporti di produzione che assumono forma materiale». (Rubin, p. 47).  [469​  Il feticismo delle merci. Introduzione al Saggio di I.I. Rubin sulla teoria del valore di Marx]  

 

3.1.5. Alienazione

Günther Anders 1956  100​ 

La tesi secondo cui la nostra dipendenza dagli «insinuanti amici in dotazione» e dal «mondo banalizzato» ci al­lontana da noi stessi è forse diventata problematica. Non perché si spinga troppo in là, ma perché non osa farlo abbastanza. Supporre che noi moderni, nutriti esclusivamente di surrogati, stereotipi e fantasmi, siamo ancora degli «io» con un «sé», e che è questa dieta a impedirci di essere «noi stessi», significherebbe ostentare un ottimismo che forse non è piú appropriato. Il tempo in cui potevamo essere vittime del­l’«alienazione», quando questo era un processo effettivamente in atto, non è forse già al­le spal­le — almeno in alcuni Paesi? Non abbiamo forse già raggiunto uno stato in cui non siamo piú «noi stessi», ma solo esseri alimentati a forza da prodotti surrogati su base quotidiana? È possibile spogliare ciò che è già stato spogliato? Possiamo spogliare chi è già nudo? Possiamo ancora alienare le masse da sé stesse? L’alienazione è ancora un processo o è già diventata un fatto compiuto? ¶ Per molto tempo abbiamo deriso queste «psicologie senz’anima», che a loro volta deridevano categorie come l’io o il sé e le liquidavano come materia di una metafisica ridicola e accademica, dicendo che non erano altro che falsificazioni del­l’essere umano. Avevamo ragione? Il nostro scherno non era puro sentimentalismo? Non erano forse questi gli psicologi che avevano falsificato l’uomo? Non erano già gli psicologi del­l’uomo falsificato? Non avevano forse ragione, come robot, a studiare i robot, a studiare la cibernetica piuttosto che la psicologia? Non avevano forse ragione anche nei loro errori, se l’uomo con cui avevano a che fare era già l’uomo falsificato?  [340​  L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale]  

 

Giorgio Agamben 1996  163​ 

L’analisi marxiana va integrata nel senso che il capitalismo (o qualunque altro nome si voglia dare al processo che domina oggi la storia mondiale) non era rivolto solo al­l’espropriazione del­l’attività produttiva, ma anche e soprattutto al­l’alienazione del linguaggio stesso, del­la stessa natura comunicativa del­l’uomo.  [537​  Mezzi senza fine, pp. 77–78]  

 

Jacques Camatte 2010-2023  2​ 

[voce: «Alienazione»] Processo nel corso del quale ciò che era proprio diventa altro, estraneo. La natura negativa, nociva di questo fenomeno deriva dal fatto che l’altro contiene una dimensione antagonistica al sé, a quel­lo che ci è proprio. ¶ «Al movimento di separazione-scissione (...) si col­lega quel­lo di autonomizzazione (Verselbständigung) dei prodotti generati dal­l’attività umana, quel­lo dei rapporti sociali che essa ha generato. Essa è pure accompagnata da una spossessione-espropriazione (Enteignung) mentre l’esteriorizzazione (Veräusserung) del­le capacità nel corso del­la manifestazione (Äusserung) del­l’essere umano è di fatto una spoliazione (Entäusserung). Vi è nel­lo stesso tempo una estraniazione (Entfremdung) dovuta al fatto che i prodotti diventano estranei ai produttori e questi al­la loro comunità. Il movimento risultante è un’inversione-rovesciamento (Verkehrung) che fa sí che le cose diventino soggetti (Versubjektivierung) e i soggetti, cose (Versachlichung); il che costituisce una mistificazione il cui risultato è il feticismo del­la merce o del capitale, che fa sí che le cose abbiano le proprietà-qualità degli uomini». ¶ Questo insieme di processi implica che al­la fine sia generata una «figura» ostile al­la persona che ha operato; il che implica anche l’esistenza di un meccanismo di cui uomini e donne non sono consapevoli e che tende a invertire lo scopo di ciò che intendono ottenere. Cosí si trovano rinchiusi, intrappolati, in un divenire che volevano evitare. Con ciò, alienazione si apparenta al­la fol­lia. [...]  [201​  Glossario]  

 

3.1.6. Merce esclusa • Equivalente generale

Jacques Camatte 2010-2023  9​ 

[voce: «Equivalente generale»] È il risultato di un fenomeno di esclusione di un elemento da un insieme, elemento che, da al­lora in poi, potrà rappresentare qualsiasi elemento del­l’insieme stesso. K. Marx ha messo in evidenza ciò per quanto riguarda il denaro (valore), ma è valido per tutti i valori. L’esclusione è accompagnata da un’elezione. In altre parole, ciò che viene escluso diventa eletto, elevato al grado di unità superiore che fonda e rappresenta. I concetti sono in generale degli equivalenti generali. Cosí l’Uomo è un equivalente generale. Esso presuppone l’esclusione di un dato tipo di uomo — quel­lo determinato dal sorgere del modo di produzione capitalistico — che tenderà a rappresentare tutti i tipi di uomini possibili (esistiti e che esistono ancora). Ciò appare nettamente quando si tratta di diritti del­l’Uomo.  [201​  Glossario]  

 

3.1.7. Denaro
Alfred Sohn-Rethel 1970  155​ 
Ma resta pur sempre vero che chiunque abbia in tasca del­le monete debba anche avere in testa astrazioni concettuali ben determinate, ne sia o meno cosciente.  [272​  Lavoro manuale e lavoro intellettuale. Per la teoria della sintesi sociale, p. 72]  

 

Alfred Sohn-Rethel 1990  157​ 
Rigorosamente parlando […] non c’è in natura la materia giusta per fare il denaro.  [280​  Il denaro. L'apriori in contanti, p. 33]  

 

Karl Marx 1844  159​ 

Nel denaro, ossia nel­la completa indifferenza tanto nei confronti del­la natura del materiale, nei confronti cioè del lato specifico del­la proprietà privata, quanto riguardo al­la personalità del proprietario privato, si è manifestato il dominio completo del­la cosa estraniata sul­l’uomo. Quel che era dominio del­la persona sul­la persona è adesso l’universale dominio del­la cosa sul­la persona, del prodotto sul produttore.  [320​  Estratti dal libro di James Mill, «Éléments d’économie politique», pp. 239–240]  

 

Karl Marx 1858  160​ 

Il denaro è proprietà «impersonale». In esso io posso portare in giro con me nel­la tasca il potere sociale generale e il contesto sociale generale, la sostanza sociale. Il denaro dà il potere sociale come cosa nel­le mani del­la persona privata, la quale esercita questo potere in quanto tale. Il contesto sociale, lo stesso ricambio organico appare nel denaro come un qualcosa del tutto esteriore, che non sta in alcuna relazione individuale con il suo possessore, e perciò fa apparire come qualcosa di affatto casuale, a lui esteriore, anche il potere che egli esercita.  [221​  Urtext (Grundrisse)]  

 

Georg Simmel 1917  164​ 

Il danaro è l’unico prodotto culturale che è pura forza, che ha rimosso da sé il portatore, divenendo assolutamente e soltanto simbolo. Fino a qui esso è il più caratterizzante tra tutti i fenomeni del nostro tempo, nel quale la dinamica ha conquistato la guida di ogni teoria e di ogni prassi. Che sia pura relazione (e in questo modo altrettanto storicamente caratteristico), senza includervi alcun contenuto, non è contraddittorio. La forza in realtà non è che relazione.  [541​  Diario postumo]  

 

Alfred Sohn-Rethel 1990  50​ 

Il denaro funge quindi da forma di scambiabilità socialmente riconosciuta di tutte le altre merci ed è quindi il portatore separato del­l'astrazione reale del­lo scambio. Il denaro è una cosa astratta e la sua astrattezza è riconoscibile in quanto astrattezza sociale. Nel­la forma del­la moneta viene impressa esplicitamente al­la sua forma naturale questa proprietà astrattamente sociale. Una volta coniato in moneta il denaro non è piu una materia destinata ad un uso, ma è una materia-denaro impiegata solo per gli scopi del­lo scambio e la sua struttura cosí coniata corrisponde ormai al­le norme del­l'uniformità, del­la divisibilità, del tipo di movimento, del­la quantificazione proprie del­l'astrazione-scambio. Certamente queste norme restano nel denaro ancora semplici implicazioni finché esso serve esclusivamente i suoi scopi pratico-economici e commerciali e il possessore di denaro non giunge mai ad identificarle spontaneamente.  [280​  Il denaro. L'apriori in contanti]  

 

3.1.8. Prestito • Credito • Debito

Karl Marx 1844  64​ 

Che cosa costituisce l’essenza del credito? [...] Il credito è il giudizio economico sul­la moralità di un uomo. Nel credito, al posto del metal­lo o del­la carta, l’uomo stesso è diventato l’intermediario del­lo scambio, non però in quanto uomo, ma in quanto esistenza di un capitale e dei suoi interessi. Il medio del­lo scambio è dunque certamente tornato e trasferito, dal­la sua figura materiale, nel­l’uomo, ma solo perché l’uomo stesso, estraniato a sé, è diventato egli stesso una figura materiale. Non è già il denaro ad esser superato nel­l’uomo, nel rapporto di credito, ma è l’uomo stesso che viene mutato in denaro, ovvero è il denaro che si è incorporato in lui. L’individualità umana, la morale umana è diventata essa stessa sia un articolo di commercio, sia un materiale in cui esiste il denaro. Non piú moneta e carta, ma la mia propria esistenza personale, la mia carne ed il mio sangue, la mia virtú ed il mio valore sociali sono la materia, il corpo del­lo spirito del denaro. Il credito strappa il valore del denaro non piú dal denaro stesso, ma dal­la carne umana e dal cuore umano. [...] a causa di questa esistenza del tutto ideale del denaro la falsificazione non può essere intrapresa dal­l’uomo su nessun’altra materia che non sia la sua propria persona, egli stesso deve fare di sé una falsa moneta, deve carpire con inganno il credito, deve mentire ecc., e questo rapporto di credito [...] diventa oggetto di commercio, oggetto di inganno e abuso reciproco.  [320​  Estratti dal libro di James Mill, «Éléments d’économie politique»]  

 

Jacques Camatte 1975  93​ 

Il credito ha assunto diverse forme nel corso del­le epoche. È certo che può esistere solo a partire dal momento in cui gli uomini sono pronti a considerare reale un’azione del futuro. Si può essere d’accordo con Mauss sul fatto che con il potlach, sistema di doni e di controdoni, in fondo si realizzasse un fenomeno di tipo creditizio. Bisogna aggiungere che il movimento del valore al­lora era verticale e sfociava nel­l’offerta ad un dio, successivamente acquisí un movimento orizzontale. D’altra parte, in questo sistema il valore di scambio non giunge ad autonomizzarsi; al contrario si può dire che il polo valore d’uso del valore si autonomizza e causa una certa alienazione degli uomini. Il principio determinante è al­lora l’utilità; con l’autonomizzazione del valore di scambio sarà la produttività.  [419​  È qui la paura, è qui che bisogna saltare!, Nota 9 ]  

 

3.1.9. Astrazione reale

Karl Marx 1847  95​ 

questo livel­lamento del lavoro [...] è, sem­plicemente la realtà del­l’industria mo­derna. ¶ Nel­l’officina moderna, il lavoro di un operaio non si distingue quasi piú dal lavoro di un altro operaio; gli operai non possono piú distinguersi tra loro se non in base al­la quantità di tempo che impiegano per lavorare. Non di meno questa diffe­renza quantitativa diviene, sotto un cer­to aspetto, qualitativa, in quanto il tem­po che si può dedicare al lavoro dipende, in parte, da cause puramente materiali quali la costituzione fisica, l’età, il sesso; in parte da cause morali puramente nega­tive, quali la pazienza, l’impassibilità, l’assiduità. Infine, se vi è una differenza di qualità nel lavoro degli operai, si trat­ta tutt’al piú di una qualità infima la quale è ben lungi dal­l’essere una specialità distintiva. Ecco come, in ultima analisi, vanno le cose nel­l’industria moderna. Ora è su questa eguaglianza, già realizzata, del lavoro «meccanizzato», che il signor Proudhon si accinge a far passare la sua pial­la «livel­latrice» da usarsi universal­mente nel tempo avvenire.  [209​  Miseria della filosofia, p. 45]  

 

Alfred Sohn-Rethel 1970  154​ 

Il lavoro non è astratto per natura e la sua astrazione in «lavoro astrattamente umano» non è opera sua. Il lavoro non diventa astratto da solo. La sede del­l’astrazione sta fuori dal lavoro, nel­la forma sociale determinata del­la relazione stabilita dal rapporto di scambio. […] Il risultato di questo rapporto è il valore-merce. Il valore-merce ha per forma il rapporto di scambio astraente e per sostanza il lavoro astrattizzato. In questa astratta determinatezza relazionale del­la «forma-valore» il lavoro, in quanto «sostanza-valore», diventa la causa determinante puramente quantitativa del­la «grandezza-valore».  [272​  Lavoro manuale e lavoro intellettuale. Per la teoria della sintesi sociale, p. 42]  

 

Alfred Sohn-Rethel 1970  156​ 

Lo scambio del­le merci è astratto poiché non solo è diverso dal loro uso, ma ne è anche separato temporalmente. L’azione di scambio e l’azione d’uso si escludono l’una l’altra nel tempo. […] Una merce col suo prezzo definitivo […] soggiace al­la finzione di una piena immutabilità materiale, che non riguarda solo le mani del­l’uomo. È come se persino la natura trattenesse il respiro nel corpo del­le merci, finché il prezzo deve restare immutato. L’azione di scambio infatti muta solo lo stato sociale del­le merci […]. Lo scambio è quindi astratto per tutto il tempo in cui avviene. In questo caso «astratto» significa che sono stati detratti tutti i segni del possibile uso del­la merce. Con il termine «uso» intendiamo l’uso di produzione e di consumo, sinonimo di tutto l’ambito in cui è compreso, secondo Marx, il ricambio organico del­l’uomo con la natura. […]
L’azione di scambio, imponendo la separazione dal­l’uso, o più esattamente dal­le azioni d’uso, postula il mercato come un vuoto misurato spazialmente e temporalmente nel processo umano di ricambio organico con la natura. In questo vuoto lo scambio del­le merci realizza la pura socializzazione in quanto tale, la socializzazione in abstracto. La nostra domanda «Come è possibile la socializzazione nel­le forme del­lo scambio del­le merci?», si può anche formulare come domanda sul­la possibilità del­la socializzazione separata dal processo umano di ricambio organico con la natura. Lo scambio del­le merci è in grado di esercitare la propria funzione socializzatrice o, per usare una nostra categoria, la propria funzione socialmente sintetica, solo mediante la sua astrattezza. Di conseguenza potremmo dare una nuova formulazione al­la domanda iniziale, vale a dire: «Come è possibile la socializzazione pura?» […]
Nel­lo scambio del­le merci l’azione e la coscienza, l’agire e il pensare di chi scambia si separano l’uno dal­l’altro e percorrono strade diverse. Solo l’azione di scambio è astratta dal­l’uso, ma non la coscienza di coloro che scambiano. […]
La forma-merce è l’astrazione reale che ha la sua sede e la sua origine solo nel­lo scambio, da cui si estende al lavoro e al pensiero per tutta l’ampiezza e la profondità del­la produzione sviluppata del­le merci. ¶ Il pensiero non è toccato dal­l’astrazione-scambio direttamente, ma solo quando si vede davanti i suoi risultati in forma compiuta, cioè solo post festum del processo di circolazione. Solo al­lora i diversi aspetti del­l’astrazione si comunicano al pensiero senza dare alcuna indicazione sul­la loro origine. «Il movimento mediatore scompare nel risultato senza lasciare traccia».[…]
L’esecuzione del­l’azione di scambio pone in vigore l’astrazione, mentre chi scambia non ha alcuna coscienza di questo effetto. È certo che l’astrazione reale del­lo scambio sociale è la causa prima di tutte le tracce lasciate da questa astrazione nel pensiero degli uomini.  [272​  Lavoro manuale e lavoro intellettuale. Per la teoria della sintesi sociale, pp. 43–49]  

 

Alfred Sohn-Rethel 1970  47​ 

Ma l’essenza del­l’astrazione-merce sta nel fatto che essa non è un prodotto del pensiero e non ha origine nel pensiero degli uomini, bensì nel loro agire. Eppure ciò non dà al suo Concetto alcun significato meramente metaforico: essa è astrazione nel rigoroso senso letterale. Il concetto economico di valore che ne deriva è caratterizzato da un’assoluta assenza di qualità, da una differenziabilità puramente quantitativa e dal­la applicabilità ad ogni tipo di merce e di servizio che possano comparire su un mercato. Grazie a queste proprietà l’astrazione-valore economica ha realmente un’impressionante analogia esterna con le categorie principali del­la conoscenza quantificatrice del­la natura, senza che sia evidente il benché minimo legame interno tra questi piani del tutto eterologi. Mentre i concetti del­la conoscenza del­la natura sono astrazioni-pensiero, il concetto economico di valore è un’astrazione reale. Esso esiste solo nel pensiero umano ma non scaturisce dal pensiero. La sua natura è immediatamente sociale e la sua origine è nel­la sfera spazio-temporale dei rapporti umani. Non sono le persone a produrre questa astrazione, bensì le loro azioni in reciproco rapporto: «Essi non lo sanno, ma lo fanno». ¶ Per comprendere adeguatamente l’assunto marxiano del­la Critica del­l’economia politica, riteniamo indispensabile attribuire la precedente definizione di astrazione reale al fenomeno del­l’astrazione-merce o del­l’astrazione-valore, scoperto nel­l’analisi del­le merci. D’altra parte la scoperta marxiana del­l’astrazione-merce così intesa è in assoluta contraddizione con tutta la tradizione del pensiero teoretico; è tale contraddizione che deve essere sottoposta ad un confronto critico. Per confronto critico intendiamo in questo caso un procedimento che non assume come vera nessuna del­le due tesi in contraddizione, ma che si propone di determinare quel­la vera mediante i criteri del pensiero critico. Marx non ha effettuato tale confronto, e noi concordiamo quindi con Louis Althusser e Jürgen Habermas, quando affermano che nei fondamenti teorici del Capitale vien messo in questione qualcosa di molto più profondo ed importante di quanto l’interpretazione economica non riesca ad esprimere.  [272​  Lavoro manuale e lavoro intellettuale. Per la teoria della sintesi sociale, p. 40]  

 

Jaime Semprun 1993  150​ 

E poi è sempre la stessa storia. Si rimprovera al marxismo di essere «grossolanamente riduttivo» perché spiega ogni cosa riconducendola al­l’attuale organizzazione economica, quando non è nel­la teoria ma nel­la realtà che l’economia «riduce» tutta la vita degli uomini. Ecco qual è la cosa davvero grossolana, ma è una grossolanità che bisogna trattare come merita : grossolanamente.  [383​  Dialoghi sul compimento dei tempi moderni]  

 

Jaime Semprun 2003  148​ 

Si può in ogni caso facilmente convenire che l’analisi critica del feticismo del­la merce è ben lontana dal­l’essere divenuta, nel mondo in cui viviamo, una semplice curiosità archeologica, e non è mai male ripetere che non è la teoria di Marx che «riduce» tutto al­l’economia, ma «la società mercantile che costituisce il più grande ‹riduzionismo› mai visto»; e che «per uscire da tale ‹riduzionismo›, bisogna uscire dal capitalismo, non dal­la sua critica»  [517​  Il fantasma della teoria]  

 

Marco Iannucci 2018  137​ 

«Storia» è il nome che va attribuito al divenire umano quando compare una tribú che imbocca la strada che la porta a dissolvere i lega­mi co­munitari ancorati al­l’attività trasformatrice e a tentare di rendersi autonoma dal­l’essere in comu­ne naturale (i due processi sono poi uno solo). ¶ Ma momenti di tal genere si danno effettivamente? La risposta è sí: c’è una modalità del­la prassi umana, capace di coinvolgere simultaneamente la socializzazione (realiz­zandola in astratto) e il processo di ricambio organico con la na­tura (separandolo da questa socializzazione) ed è una prassi molto diffusa: lo scambio che trasforma i prodotti in merci. È infatti carattere proprio di tali atti di scambio di svolgersi in stato di separazione sia spaziale sia temporale (potrei perciò dire: essenziale) dal processo di ricambio or­ganico tra i sog­getti umani e la natura. Piú si diffonde il rapporto di scambio svincolato da prescrizioni sacrali, ri­tuali, religiose, magiche, di reciprocità ecc., e retto solo dal­la considerazione quanti­tativa dei valori in gioco, piú l’intera prassi umana si astrae dal legame organico con i vincoli naturali. ¶ Il processo ha del­le tappe, e non è un caso che gli scambi siano sorti laddove i legami comunitari erano sospesi, cioè, come osserva Marx: «lo scambio non comincia tra gli individui al­l’interno di una comunità, ma là dove le comunità si arrestano — ai loro confini, nel­la zona di contatto del­le diverse comunità». ¶ Il punto è che durante gli atti di scambio le relazioni organiche sono interrotte, «la natura si ferma» [A. Sohn-Rethel]. Questo vuoto d’esperienza, questa rottura del­la continuità tra uomo e natura, non accade solo di fatto ma per necessità e in modo irrimediabile dal momento in cui è il movimento del valore a reggere i legami interumani. Infatti l’atto di scambio accade in uno spazio e in un tempo necessariamente astratti, cioè altri dal­lo spazio e dal tempo in cui si svolge l’interscambio tra comunità umana e comunità naturale basato sul­l’attività trasformatrice. ¶ Le relazioni tra gli individui cominciano cosí a ruotare attorno ad una astrazione che è reale, dato che non si origina nel pensiero ma nel­le azioni (di scambio) ed è quindi in grado di alterare radicalmente il luogo unitario del­l’esperienza, ovvero la corrispondenza tra la Gemeinwesen naturale e la Gemeinwesen umana. Al suo posto si instaura la separazione tra la natura contrapposta come oggetto e i soggetti umani che sono ora solo monadi individuali separate e reciprocamente contrapposte nel­le motivazioni del loro agire.  [355​  Un percorso nell'essere in comune, pp. 83-84 ]  

 

Vedi anche:  Gianfranco La Grassa, Lavoro «astratto» ed espropriazione «reale» dei produttori

3.1.10. Immortalità (cercata nel valore)
Karl Marx 1858  86​ 
L’imperiturità (Unvergänglichkeit), al­la quale aspira il denaro mentre si rapporta negativamente di fronte al­la circolazione (sottraendosi a essa)[...].  [221​  Urtext (Grundrisse)]  

 

3.2. Movimento del capitale

3.2.1. Capitale

Jacques Camatte 2010-2023  7​ 

[voce: «Capitale»] È definito sul­la base del­l’opera di K. Marx: il valore pervenuto al­l’autonomia e che può perpetuarsi a seguito del­la sottomissione del movimento sociale, attraverso il dominio del rapporto salariale (sottomissione del lavoro al capitale).  [201​  Glossario]  

 

Marco Iannucci 2018  75​ 

Ricordo ancora bene l’emozione che provai al­la prima lettura di quel libro [Il Capitale]. Era l’emozione che si prova quando ci si trova davanti a un disvelamento, quando qualcosa che era occultato, nascosto, ci viene al­l’improvviso svelato. Il disve­lamento operato da Marx è profondo e nel­lo stesso tempo ricco di dettagli, e io non posso che rimandare al­le sue paro­le. Ma voglio qui ricordarne solo tre capisaldi, quel­li che an­che al­lora mi colpirono con maggiore forza:
innanzitutto restai stupefatto e nel­lo stesso tempo il­lu­minato nel momento in cui Marx mi chiarí che il capi­tale non è una cosa, ma un rapporto sociale tra persone, mediato da cose. «Ma al­lora — pensai — il capitale in definitiva non va trattato come un oggetto interno al­l’economia: se esso regge i rapporti tra le persone, vuol dire che non ap­partiene ad un ambito particolare, ma è ciò che determina il modo di vivere degli uomini e del­le donne, è ciò che dà forma al­la loro vita. Quindi, proporsi di smontare il capi­tale, di disattivarlo, di tirar­sene fuori, non è compiere un’operazione politico-eco­nomica, ma vuol dire riproget­tare la propria vita sotto un’altra forma, e questa riproget­tazione non è limitata ad un ambito predefinito, ma è to­tale, e va al­la radice del­l’umano». Cominciavo anche a ca­pire che se ciò che appare al­la superficie sono «cose» (le merci, il denaro) mentre ciò che non appare è che queste cose mediano i rapporti sociali, ecco al­lora perché di cose si può sem­pre parlare, mentre sul­la forma che i rapporti sociali prendono in quanto model­lati da queste cose, è me­glio sorvolare;
ma di quali rapporti sociali è portatore il capitale quan­do si insedia tra gli uomini? Evidentemente di rapporti sociali corrispondenti al­la sua natura. E qual è la sua natura? Se­condo disvelamento: il capitale è denaro in processo, è dena­ro che si valorizza, che aumenta la sua quantità. Ulteriore il­luminazione stupefacente: ma al­lo­ra mi sta dicendo che le relazioni umane, se si sottomet­tono al capitale, assumo­no come loro cardine il denaro che deve aumentare, cioè prendono una forma funzio­nale ad un processo che deve portare al­la fine, nel­le ta­sche di chi vi ha immesso (inve­stito) denaro, piú denaro di quanto vi era presente inizial­mente. Le relazioni umane si model­lano cosí in funzione di questo aumento di denaro a uno dei loro poli, cioè del­la valorizzazione che rende il denaro capitale. Questa valo­rizzazione di­venta il legante dei rapporti umani, con un’inversione che Marx sottolinea, per cui i rapporti so­ciali a quel punto non sono piú «rapporti immediatamente sociali fra persone […] ma anzi, rapporti di cosefra persone e rapporti sociali fra cose». Se non stai a questo gioco il processo ti relega ai margini del­la vita sociale, il che spes­so vuol dire del­la vita tout court. Poiché la valoriz­zazione esige che tutti i beni diventino merci, e se non hai accesso al­le merci, muori, socialmente e fisicamente. E per avere accesso al­le merci devi possedere denaro, e il principale modo che ti viene prospettato per acquisir­lo è di divenire merce tu stesso, vendendo le tue facoltà umane. Si capisce quali enormi conseguenze derivino da qui a cascata;
ma quale limite di penetrazione ha questo processo nel­la vita degli uomini? Dove si ferma? Risposta di Marx e terzo disvelamento: non ha alcun limite prestabilito; il capitale non si ferma di fronte a nul­la. Ciò vuol dire che esso tra­sforma tendenzialmente tutte le relazioni in­traumane e le relazioni tra la specie e la natura in rela­zioni funzionali al­la sua valorizzazione. Ciò vale in estensione (Marx in proposito sottolineò il bisogno del capitale di crearsi un mercato mondiale) ma vale anche in intensione, con il suo entrare capil­larmente a determi­nare le azioni che gli indi­vidui compiono ogni giorno. Marx, ad esempio, forniva gli elementi per capire che è esigenza del capitale non di creare prodotti per i biso­gni, ma bisogni per i prodotti. Gli atti che noi crediamo di compiere naturalmente e sempli­cemente per soddi­sfare i nostri bisogni, sono in realtà pi­lotati in modo da passare attraverso l’acquisto e il consu­mo di merci, cosí da garantire la massima valorizzazione del capitale. Il nostro agire è appendice di questa valoriz­zazione. Ciò richiede che le rappresentazioni mentali che si associa­no ai nostri atti siano parimenti model­late sul­le esigenze del capitale (è ciò di cui si incaricano la pubblici­tà e l’informazione di massa).  [355​  Un percorso nell'essere in comune, pp. 17-19 ]  

 

3.2.1.1. Crematistica

Aristotélēs IV a.C.  90​ 

Fra le arti d’acquisizione patrimoniale, solo una specie è parte naturale del­l’economia, perché bisogna che si abbiano a disposizione — o che tale arte metta a disposizione — una riserva di beni utili al­la comunità cittadina o domestica. ¶ Ed è plausibile che in tali beni consista la ricchezza autentica. Quanto, di tale possesso, basta a una vita ben vissuta, non è senza limiti, come dice Solone in quel suo verso: «per la ricchezza umana, ​/​ nessun termine chiaro è decretato». ¶ Un termine invece esiste, come per le altre arti: non si dà mezzo senza un termine, in numero o in grandezza, per nessuna arte; e la ricchezza altro non è che la somma dei mezzi economici e politici. È evidente, dunque, che esiste un’arte d’acquisizione patrimoniale che appartiene per natura a chi si occupa di economia e di politica. E perché ci sia, è altrettanto evidente. ¶ Ma c’è un’altra arte d’acquisizione patrimoniale che si definisce precisamente — e a giusto titolo — «crematistica», «arte che produce i beni». È a causa di tale arte che non si dà alcun apparente limite al­la ricchezza e al­l’acquisizione. Molti credono che essa sia uguale e identica al­l’arte di cui abbiamo appena parlato, data l’affinità fra le due: ma essa non è né identica, né troppo lontana. Solo che la prima è naturale, la seconda no, ma deriva piuttosto da qualche esperienza e dal­l’arte acquisita. ¶ Iniziamo da questo punto. Dato un bene, due sono gli usi che se ne possono fare: entrambi conformi al­la natura del bene, ma non al­lo stesso modo, dal momento che il primo è proprio del­l’oggetto, l’altro no. Esempio: una scarpa. Essa può essere calzata, o essere oggetto di scambio. Ed entrambi sono modi di usare la scarpa. Chi scambia una scarpa con chi ne ha bisogno, e ne ricava denaro o nutrimento, usa la scarpa in quanto scarpa, ma non ne fa l’uso che le è proprio: la scarpa non è fatta per essere barattata! E cosí vale per tutti i beni. ¶ […] Nel­la comunità primaria — che è la comunità domestica — evidentemente non si dà alcuna pratica di scambio; essa si dà invece nel­le comunità piú estese. I membri del­la comunità domestica avevano in comune, tutti quanti, gli stessi beni, mentre chi si trova a vivere in comunità separate ha accesso a molti beni diversi, dei quali si dà necessariamente un reciproco scambio, secondo i concreti bisogni, come avviene tuttora fra molti popoli barbari, tramite il baratto. E cosí sono oggetto di scambio i meri beni utili: un bene per un bene equivalente, ma nul­la di piú; per esempio, danno o prendono vino o grano, e cosí per ogni altro bene analogo. Una simile forma di scambio non è contro natura, né rientra in alcun modo nel­la crematistica, perché tende a completare la naturale autosufficienza. ¶ Eppure è proprio da questa forma di scambio che derivò, secondo logica, la crematistica. ¶ Quando divenne piú sistematico il ricorso al­l’estero per importare ciò di cui si mancava e per esportare i beni in eccedenza, si ricorse di necessità al­l’uso del­la moneta. Non tutti i beni naturalmente necessari sono facili da trasportare: e cosí, per realizzare gli scambi, si convenne di dare e d’accettare un bene di un certo tipo; un bene che fosse utile in se stesso, ma piú facile a maneggiarsi per le esigenze quotidiane: per esempio il ferro, o l’argento, o altro materiale analogo, che sul­le prime era definito semplicemente dal­la sua grandezza e dal suo peso; in séguito, però, presero a imprimervi un marchio, cosí da poter evitare la misurazione: il marchio valeva da segno del­la quantità. ¶ Dopo l’invenzione del­la moneta, dal­lo scambio praticato per pura necessità sorse un’altra specie di crematistica: il commercio. Esso, sul­le prime, fu forse un commercio rudimentale; ma poi, con l’aumentare del­l’esperienza, divenne un’arte piú scaltrita: e si seppe bene dove e come effettuare gli scambi per realizzare un profitto maggiore. ¶ Perciò, a quanto pare, la crematistica ha per oggetto il denaro, e la sua specifica funzione è sapere da quali fonti ricavare il maggior numero di beni, perché la crematistica è un’arte tesa al­la produzione di ricchezza e di beni. Non a caso, è idea comune che la ricchezza coincida con l’abbondanza di denaro, perché è il denaro l’oggetto del commercio e del­la crematistica. ¶ A volte, però, il denaro sembra una sciocchezza, e una mera convenzione, priva di valore naturale: basta che i soggetti del­lo scambio ne mutino il valore convenzionale, ed ecco che il denaro non vale piú nul­la e non riesce piú a soddisfare alcun bisogno vitale; sicché, chi è ricco di denaro, spesso non avrà di che mangiare. E davvero è una ricchezza ben curiosa, quel­la che farà morire di fame chi ne è ricco: come quel Mida del­la leggenda, che vol­le troppo, e pregò che tutto diventasse oro ciò che gli si presentava. Ed è per questo che si va al­la ricerca di un altro tipo di ricchezza, o di crematistica: e non a torto. C’è un altro tipo di ricchezza, un altro tipo di crematistica, ed è l’economia in senso autentico. Quel­la fondata sul commercio, invece, produce beni, sí, ma non in senso assoluto: produce beni solo attraverso lo scambio di beni. E ha per oggetto il denaro, perché il denaro è elemento e fine del­lo scambio. E quel­la che deriva dal­la crematistica è una ricchezza che non ha alcun limite.  [405​  Politica, 1, 1256b 26–1257b 24 Federico Condello]  

 

3.2.2. Plusvalore
Stephen Smith  2022  114​ 
Mia figlia è un ingegnere aerospaziale. Quando è andata a conseguire il master, ha lasciato a casa molti dei suoi quaderni. Come pilota, ero curioso e ne ho tirato fuori uno per dargli un’occhiata. Doveva essere di uno dei suoi primi corsi. La prima cosa sul­la prima pagina era questa: «Qual è l’obiettivo di un’azienda aerospaziale?». La risposta era perfetta. «Fare soldi».  [445​  Comment in a forum]  

 

Jean Vioulac 2009  143​ 

L’ideologia marxista ha piú spesso definito il capitale come «rapporto sociale di produzione»; data da Marx medesimo, la definizione è indubbiamente corretta: nel­la misura in cui l’essenza stessa del­l’essere si trova nel lavoro degli individui, il capitale non può che avere come base o fondamento un certo modo di attualizzazione di questo lavoro, condizionato dal rapporto che i lavoratori hanno tra loro. ¶ Ma questa definizione è tuttavia insufficiente a circoscrivere il modo d’essere del capitale, proprio perché vi riconosce l’alienazione del lavoro, cioè il suo divenire-altro. ¶ Il lavoro è alienato perché è attualizzato da un altro e per un altro, e il suo atto diventa al­lora l’atto di un altro: si tratta di sapere chi è questo altro per il quale il lavoro è alienato, e che con la sua alienazione conquista un potere che inizialmente gli manca. ¶ Ora, la specificità del sistema è quel­la di non alienare un gruppo di uomini a vantaggio di un altro gruppo di uomini: questo tipo di rapporto di sfruttamento, che rimane immanente nel campo del­la prassi, è caratteristico del­la schiavitú o del­la servitú del­la gleba, dove gli sfruttatori si appropriano dei prodotti particolari di determinati lavoratori, e usano e abusano degli sfruttati per soddisfare i loro fini particolari. ¶ Questo tipo di rapporto sociale può essere condannato come ingiusto o giustificato come inevitabile: resta il fatto che è la prassi soggettiva — quel­la degli sfruttatori in questo caso — a rimanere costitutiva: cosí il mondo greco, fondato sul­la schiavitú, è nel­la sua essenza prassi. ¶ La caratteristica del sistema capitalista, invece, è quel­la di strappare la produzione al­la prassi soggettiva particolare e trasferirla a una totalità astratta che da sola ha lo status di soggetto. ¶ Concentrandosi sui capitalisti, il marxismo ha spesso trascurato il costante richiamo di Marx al fatto che «il capitalista stesso è il detentore del potere solo in quanto personificazione del capitale», e che il capitalista, anche se beneficia del sistema, è altrettanto espropriato del suo status di soggetto e non ha alcuna autonomia rispetto al processo oggettivo di produzione. ¶ Il capitalista non è il soggetto del processo, è solo il servo del capitale e non esercita mai piú del potere che il capitale gli concede.  [505​  L’époque de la Technique. Marx, Heidegger et l’accomplissement de la métaphysique]  

 

3.2.3. Autonomizzazione • Soggetto automatico
Joseph de Maistre 1796  69​ 
Non sono gli uomini che guidano la rivoluzione, è la rivoluzione che guida gli uomini.  [336​  Considerazioni sulla Francia]  

 

Karl Marx 1857  97​ 

E in questa forma totalmente estraneizzata del profitto, e nel­la stessa misura in cui la forma del profitto nasconde il suo nucleo interno, il capitale acquisisce sempre più una forma reificata [sachliche], da relazione diventa sempre più una cosa, ma una cosa che ha la relazione sociale nel suo corpo, che l'ha inghiottita, una cosa che si relaziona con se stessa con una vita fittizia e un'autonomia, un essere senziente soprasensibile [sinnlich-übersinnliches Wesen]; e in questa forma di capitale e profitto appare in superficie come un presupposto compiuto. Questa è la sua effettività o, meglio, la sua forma di esistenza effettiva. Ed è la forma in cui vive nel­la coscienza dei suoi agenti (supporti), i capitalisti, che la dispiegano nel­le loro rappresentazioni. ¶ Questa forma fissa e ossificata (metamorfosata) del profitto (e quindi del capitale in quanto suo creatore, perché il capitale è la ragione, il profitto la conseguenza; il capitale causa, il profitto effetto; il capitale sostanza, il profitto accidente; il capitale è solo come capitale che crea profitto, come valore che crea un profitto, un valore aggiuntivo).  [423​  Marx-Engels-Werke (MEW)]  

 

Karl Marx 1858  101​ 

Nel capitale il denaro ha perso la sua rigidità e da cosa tangibile è diventato processo. Denaro e merce in quanto tali, proprio come la circolazione semplice stessa, esistono per il capitale soltanto ancora in quanto particolari momenti astratti dal­la sua esistenza, nei quali esso come costantemente appare, trapassa dal­l’uno al­l’altro, cosí costantemente sparisce. L’autonomizzazione non appare solo nel­la forma, per cui esso come autonomo e astratto valore di scambio — denaro — sta di fronte al­la circolazione, ma in quel­la per cui questa [la circolazione] è insieme il processo del­la sua autonomizzazione; è a partire da essa che diviene cosa autonoma.  [221​  Urtext (Grundrisse), p. 141 ]  

 

Karl Marx 1867  103​ 

Il valore trapassa costantemente da una forma al­l’altra, senza perdersi in questo movimento, e si trasforma così in un soggetto automatico.  [268​  Il Capitale]  

 

Ludwig Klages 1913  111​ 

Perché potesse svilupparsi la moderna ricerca scientifica, dovettero realizzarsi quel grande mutamento del modo di pensare che è il capitalismo. ¶ Che le bril­lanti conquiste del­la fisica e del­la chimica servano unicamente al capitale, per del­le persone sensate è certo, ma non sarebbe affatto difficile provare la medesima finalità nel­le stesse teorie dominanti. Lo specifico carattere del­la scienza modema — la sostituzione di tutte le caratteristiche qualitative con pure relazioni quantitative — riproduce nel­la veste del­la sistemazione scientifica la legge fondamentale di un comando del­la volontà, che ha sacrificato la scintil­lante e variopinta ricchezza dei valori del­l’anima — il sangue, la bel­lezza, la dignità, il fervore, la grazia, il calore, la maternità — al­l’ingannevole valore di quel­la boriosa forza che s’incarna in modo misurabile nel possesso del denaro. Si è perciò coniata anche la parola «mammonisino», ma certo solo pochi si sono resi conto che questo Mammona è un essere reale che s’impadronisce del­l’umanità come di uno strumento per annientare la vita del­la terra.  [437​  L’uomo e la terra, pp. 58–59]  

 

André Leroi-Gourhan 1964  136​ 

In conclusione, il prodigioso trionfo del­l'uomo sul­la materia si è compiuto a costo di una vera e propria sostituzione. Abbiamo visto, nel corso del­l'evoluzione degli Antropiani, come al­l'equilibrio zoologico si sia sostituito un equilibrio nuovo, percepibile fin dagli inizi del­l'homo sapiens, nel Paleolitico superiore. Il gruppo etnico, la «nazione» sostituisce la specie e l'uomo, che nel corpo rimane un normale mammifero, si sdoppia in un organismo col­lettivo con possibilità praticamente il­limitate di accumulare innovazioni. La sua economia rimane quel­la di un mammifero altamente predatore anche dopo il passaggio al­l'agricoltura e al­l'al­levamento. A partire da questo punto, l'organismo col­lettivo diventa preponderante in modo sempre più categorico e l'uomo diventa strumento di una ascesa tecno-economica cui presta le idee e le braccia. In tal modo, la società umana diventa la principale consumatrice di uomini, sotto tutte le forme, per mezzo del­la violenza o per mezzo del lavoro. L'uomo conquista cosí la facoltà di prendere via via possesso del mondo naturale. che, se proiettiamo nel futuro i termini tecno-economici di quel­lo attuale, deve terminare con una vittoria totale, una volta svuotato l'ultimo pozzo di petrolio per cuocere l'ultima manciata d'erba da consumare insieme al­l'ultimo topo. Una simile prospettiva non è tanto un'utopia quanto la constatazione del­le singolari proprietà del­l'economia umana, economia sul­la quale nul­la ancora lascia intravvedere che l'uomo zoologico, cioè intel­ligente, abbia un vero control­lo. Per lo meno si è visto, in una ventina d'anni, l'ideale del consumismo accompagnarsi a una certa diffidenza nel­l'infal­libilità del determinismo tecno-economico.  [481​  Il gesto e la parola, pp. 219-220]  

 

Jacques Camatte 1966-1968  67​ 

Il capitale s’è accresciuto a spese del lavoro umano, non solamente di quel­lo dei proletari, ma anche di quel­lo di tutte le generazioni del lavoro trascorso (vergangene). Ora, esso è un mostro automatizzato: «come un vampiro, si impregna costantemente di lavoro vivo come anima — es als ein Vampyr die lebendige Arbeit beständig als Seele einsaugt —» (Grundrisse). Attraverso il movimento del­la società, il capitale si è accaparrato tutta la materialità del­l’uomo, il quale non è piú altro che un soggetto di sfruttamento, un tempo determinato di lavoro: «Il tempo è tutto, l’uomo non è piú niente; è tutt’al piú la carcassa del tempo» [...]. Cosí, il capitale è divenuto la comunità materiale del­l’uomo; tra movimento del­la società e movimento economico non c’è piú scarto, il secondo ha totalmente subordinato il primo.  [328​  Il capitale totale]  

 

Jean Vioulac 2009  144​ 

Il rapporto sociale di produzione è quindi, piú precisamente, un dispositivo di produzione. ¶ Una volta che questo dispositivo è in funzione, il capitale diventa effettivamente un soggetto e taglia i legami con le proprie determinazioni. ¶ Esiste certamente un insieme di condizioni storiche necessarie per l’avvento del capitale: ma queste condizioni cadono al di fuori del capitale stesso, una volta che questo si è costituito. ¶ Il capitale compiuto non è piú una relazione sociale, è una cosa soggettivizzata. ¶ Nel suo studio sul­l’economia speculativa, Marx sottolinea che
«Il capitale acquisisce sempre piú una configurazione cosica e, da relazione, si trasforma sempre piú in una cosa, in una cosa che si comporta verso se stessa come se fosse dotata di una vita e di un’autonomia fittizie» (Marx, Teorie sul plusvalore).Abbiamo capitale dal momento in cui il polo monetario si pone come «fondamento di se stesso (Grund von sich)»; da questo momento in poi, il capitale non solo disconosce qualsiasi fondamento eteronomo, ma produce anche i propri presupposti, e in questo dispiega pienamente la sua logica speculativa:
«I presupposti del suo divenire sono superati nel­la sua esistenza. Le condizioni e i presupposti del divenire, del­la genesi del capitale, implicano appunto che esso non è ancora, ma che solo diviene; scompaiono quindi con l’avvento effettivo del capitale, con il capitale che, partendo dal­la propria realtà, pone esso stesso le condizioni del­la sua realizzazione […] Il capitale, appena divenuto capitale, crea i propri presupposti». (Marx, Grundrisse)  [505​  L’époque de la Technique. Marx, Heidegger et l’accomplissement de la métaphysique]  

 

3.2.4. Sussunzione formale e reale del lavoro

Karl Marx 1867  44​ 

[...] è nel­la natura del­le cose che la sottomissione del processo lavorativo al capitale si verifichi per ora sul­la base di un processo lavorativo ad esso preesistente, configurato­si sul­la base di antichi e diversi processi produtti­vi e di altre e diverse condizioni del­la produzione; il capitale si sottomette un processo lavorativo dato, esistente — per es., il lavoro artigianale o il lavoro agricolo corrispondente al­la piccola economia con­tadina autonoma — e le modificazioni che possono tuttavia verificarsi al­l’interno del processo lavorati­vo, non appena esso soggiaccia al comando del ca­pitale, possono essere soltanto conseguenze graduali del­la già avvenuta sottomissione dei processi lavora­tivi dati, tradizionali, al Capitale  [264​  Il Capitale, Libro I, Capitolo VI inedito, p. 53]  

 

Karl Marx 1867  45​ 

Permane qui la caratteristica generale del­la sottomissione formale, cioè la diretta subordinazione del processo lavorativo, comunque sia esercitato dal punto di vista tecnologico, al capitale. Ma su questa base si erge un modo di produzione tecnologicamente (e non solo tecnologicamente) specifico, che modifica la natura reale del processo lavorativo e le sue reali condizioni — il modo di produzione capitalistico. Solo quando esso appare in scena, ha luogo la sottomissione reale del lavoro al capitale. […] ¶ Al­la sottomissione reale del lavoro al capitale si accompagna una rivoluzione completa (che prosegue e si ripete costantemente) nel modo stesso di produzione, nel­la produttività del lavoro, e nel rapporto fra capitalisti e operai. ¶ La sottomissione reale del lavoro al capitale va di pari passo con le trasformazioni nel processo produttivo che abbiamo già il­lustrate: sviluppo del­le forze produttive sociali del lavoro e, grazie al lavoro su grande scala, applicazione del­la scienza e del macchinismo al­la produzione immediata. Da una parte, il modo di produzione capitalistico, che ora appare veramente come un modo di produzione sui generis, dà al­la produzione materiale una forma diversa; dal­l’altra, questa variazione del­la forma materiale costituisce la base per lo sviluppo del rapporto capitalistico, la cui forma adeguata corrisponde perciò a un determinato grado di sviluppo del­le forze produttive sociali del lavoro. […] ¶ La produttività del lavoro, la massa di produzione, popolazione e sovrappopolazione, che questo modo di produzione determina, danno continuamente vita (grazie a capitale e lavoro liberati) a nuove branche produttive, in cui il capitale può riprendere a funzionare su scala piú modesta e ripercorrere le diverse tappe di sviluppo finché esse pure non funzionino su scala sociale. E questo è un processo ininterrotto. ¶ Nel­lo stesso tempo, la produzione capitalistica tende a impadronirsi di tutti i rami di industria in cui non regna ancora sovrana, e dove continua a vigere soltanto una sottomissione formale. Una volta assoggettate l’agricoltura, l’industria mineraria, le principali manifatture tessili e di abbigliamento ecc., essa si impadronisce degli altri settori in cui la sottomissione è puramente formale o in cui gli artigiani sono ancora indipendenti. A proposito del macchinismo, abbiamo già osservato che l’introduzione del­le macchine in un ramo porta con sé il loro impiego in altri rami e, contemporaneamente, in altri settori del­lo stesso ramo.  [264​  Il Capitale, Libro I, Capitolo VI inedito, pp. 68-70]  

 

Karl Marx 1867  46​ 

Le cognizioni, l’intel­ligenza e la volontà che il contadino, indipendente o il mastro artigiano sviluppano, anche se su piccola scala, al­lo stesso modo che il selvaggio esercita come astuzia personale tutta l’arte del­la guerra, ormai sono richieste soltanto per il complesso del­l’officina. Le potenze intel­lettuali del­la produzione al­largano la loro scala da una parte perché scompaiono da molte parti. Quel che gli operai parziali perdono si concentra nel capitale, di contro a loro. Questa contrapposizione del­le potenze intel­lettuali del processo materiale di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto del­la divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Questo processo di scissione comincia nel­la cooperazione semplice, dove il capitalista rappresenta l’unità e la volontà del corpo lavorativo sociale di fronte ai singoli operai, si sviluppa nel­la manifattura che mutila l’operaio facendone un operaio parziale; si completa nel­la grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale.  [268​  Il Capitale, Libro I, 2, p. 61]  

 

3.2.4.1. Estensione della sussunzione al tempo libero, alla società, al corpo

Jacques Camatte 1972  57​ 

Nel periodo di dominio formale, il capitale non arriva ad assoggettare a sé e dunque ad incorporare la forza-lavoro, che gli è restia, gli si ribel­la al punto da mettere in pericolo lo sviluppo del suo processo, dal momento che ne dipende totalmente. Ma l’introduzione del­le macchine modifica tutto. Il capitale si impadronisce al­lora di tutta l’attività che il proletario dispiega nel­la fabbrica. Con lo sviluppo del­la cibernetica si constata che il capitale si appropria, incorpora in sé il cervel­lo umano; con l’informatica, crea il proprio linguaggio sul quale deve model­larsi il linguaggio umano, ecc. A questo livel­lo, non sono piú unicamente i soli proletari — coloro che producono il plusvalore — ad essere sottomessi al capitale, ma tutti gli uomini, la maggior parte dei quali viene proletarizzata. È il dominio reale sul­la società, dominio in cui tutti gli uomini diventano schiavi del capitale (schiavitú generalizzata, quindi, convergenza col modo di produzione asiatico). ¶ In tal modo non è piú il lavoro, momento definito e particolare del­l’attività umana, ad essere sottomesso e incorporato al capitale, bensí tutto il processo vitale degli uomini. Il processo di incarnazione (Einverleibung) del capitale, cominciato in Occidente quasi cinque secoli or sono, è terminato. Il capitale è ormai l’essere comune (Gemeinwesen) oppressore degli uomini.  [300​  Nota del 1972 «A proposito di dominio formale e dominio reale del capitale», pp. 150-151]  

 

3.2.4.2. Il tempo del capitale

Karl Marx 1847  80​ 

[...] gli uomini scompaiono davanti al lavoro [...] il bilanciere del­la pendola è divenuto la misura esatta del­l'attività relativa di due operai, come lo è del­la velocità di due locomotive. Per cui non si deve più dire che un’ora di un uomo vale un’ora di un altro uomo, ma piuttosto che un uomo di un’ora vale un altro uomo di un’ora. Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più la carcassa del tempo. Non è più una questione di qualità. Solo la quantità decide tutto.  [209​  Miseria della filosofia]  

 

Guy Debord 1967  60​ 

[Tesi 147] Il tempo del­la produzione, il tempo-merce, è un’accumulazione infinita di interval­li equivalenti. È l’astrazione del tempo irreversibile, in cui tutti i segmenti devono provare sul cronometro la loro sola uguaglianza quantitativa. Questo tempo è, in tutta la sua realtà effettiva, ciò che è nel suo carattere scambiabile. È in questo dominio sociale del tempo-merce che «il tempo è tutto e l’uomo non è niente; egli è tutt’al piú la carcassa del tempo» [...]. È il tempo svalorizzato, l’inversione completa del tempo come «campo di sviluppo umano».  [304​  La Società dello spettacolo]  

 

Jacques Camatte & Gianni Collu 1969  55​ 

Dominio reale del capitale significa quindi che non soltanto il tempo di vita e le capacità mentali del proletariato gli vengono espropriate, ma che prevalendo ormai (sul piano spaziale) il tempo di circolazione su quel­lo di produzione, la società del capitale crea popolazione «improduttiva» su larga scala — crea cioè la stessa «vita» in funzione del­le proprie necessità — per fissarle poi nel­la sfera del­la circolazione e del­le metamorfosi del plusvalore accumulato. Il ciclo si chiude con una identità: tutto il tempo di vita degli uomini è il tempo socialmente necessario al­la creazione e al­la circolazione-realizzazione del plusvalore; tutto è misurabile dal­le lancette degli orologi. «Il tempo è tutto, l’uomo non è piú nul­la, esso diviene tutt’al piú la carcassa del tempo» (Anti-Proudhon).  [292​  Transizione]  

 

Jacques Camatte 1976  56​ 

Si è arrivati al­l’organizzazione del tempo per il capitale ed è a partire da ciò che il capitale ha potuto mettere a punto la programmazione di ogni aspetto del­la vita umana.  [225​  Marx e la Gemeinwesen]  

 

3.2.4.3. La merce del capitale

Giorgio Cesarano & Gianni Collu 1973  128​ 

[Tesi 65] L’antropomorfosi del capitale sposta l’asse del­la valorizzazione dal­la produzione quantitativa di merci al­la produzione quantizzata di valore-uomo. L’equilibrio valorizzazione-devalorizzazione, e l’equilibrio specie-pianeta, può essere visto come un traguardo raggiungibile solo da un capitale-uomo che mentre ha fatto di ciascuno l’imprenditore del­la sua propria valorizzazione, cancel­li fittiziamente dal suo modo d’essere il dominio del­la quantificazione esteriorizzata, per riprodurlo, a un livel­lo di superiore mistificazione, al­l’interno del­la valorizzazione del­l’Ego. Non tanto sono destinate a contare ancora le quantità di «beni» di consumo e di «status symbols», nei quali ciascuno è stato fin qui sol­lecitato a valorizzarsi, quanto sono destinate a contare, in una civiltà neocristiana di egualitarismo burocratizzato, le quantità di sé realizzate come valori nel­la circolazione ristretta, ma moltiplicata in infinità di identici, dei rapporti di scambio tra «personalità» imprenditrici. ¶ Così come il capitale produttore di oggetti richiedeva quali
«condizioni e presupposti dati (al­la propria valorizzazione): 1) una società i cui membri concorrenti si fronteggiano come persone che si stanno davanti solo come possessori di merci, e solo come tali entrano in contatto reciproco (cosa che esclude la schiavitù, ecc.), e 2) che il prodotto sociale sia prodotto come merce (il che esclude tutte le forme in cui, per i produttori immediati, il valore d’uso è il fine principale, e al massimo l’eccedenza del prodotto si trasformi in merci, ecc.)»; il capitale produttore di uomini-valore chiede come condizioni e presupposti dati: 1) una società i cui membri concorrenti si fronteggiano come persone che si stanno davanti solo come possessori di «personalità», e solo come tali entrano in contatto reciproco (cosa che esclude l’alienazione al­le «cose», come simboli di valore acquisito e di autorealizzazione), e 2) che il prodotto sociale sia prodotto come valore del­la merce «persona» (il che esclude tutte le forme in cui, per i produttori immediati, il valore di scambio del­le «cose» è il fine principale, e al massimo l’eccedenza del prodotto si trasforma in devalorizzazione).  [485​  Apocalisse e rivoluzione]  

 

Giorgio Cesarano & Gianni Collu 1973  129​ 

[Tesi 66] Solamente se si è ben inteso come il momento del­la circolazione del­le merci è nel processo di valorizzazione classico un luogo soltanto del­le commutazioni grazie al­le quali D si trasforma in D’, si può guardare senza scandalo, dal punto di vista del­la nazionalità capitalista, al progetto del­l’economia autocritica. Hanno torto i commentatori progressisti al rapporto MIT e al­le proposte Mansholt, quando affermano che il capitale non può sussistere senza seguitare ad accrescere la produzione di merci sul­le quali si valorizza, se intendono per merci le sole «cose». Non importa quale natura abbia la merce, se di «cosa» piuttosto che di «persona»›, perché il capitale possa seguitare ad accrescersi in quanto tale: è sufficiente che sussista un momento del­la circolazione in cui una merce qualsiasi si assuma il compito di scambiarsi con D per ricambiarsi successivamente con D’. Ciò è perfettamente possibile, in linea teorica, quando si sostituisca al­la merce-cosa la merce-uomo, purché il capitale costante converta il suo investimento maggioritario dagli impianti idonei a produrre esclusivamente oggetti agli impianti idonei a produrre «persone sociali» (servizi sociali, e «servizi personali»›).  [485​  Apocalisse e rivoluzione]  

 

Giorgio Cesarano & Gianni Collu 1973  130​ 

[Tesi 67] Il capitale ha mercificato sin dal principio gli uomini, producendoli come forza-lavoro incorporata al­le cose. In questo consisteva l’alienazione: nel­l’essere di ciascuno un attributo del­la merce, nel viversi negato nel­la propria soggettività per vedersi aggregato quale cosa al processo di crescita su se stessa di una soggettività impersonale ed aliena, che se ne appropriava la forza rigettandone come scoria inutile la sostanza umana. Invertendo la tendenza, il capitale non fa che reinvestirsi nel­la soggettività di ciascuno, subordinando la produzione di merci-cose al­la propria sopravvivenza, anziché subordinare la sopravvivenza di ciascuno al­la produzione del­le merci. E così che può tentare, innestando in ciascuno un ripetitore autonomizzato del­la propria volontà, di superare il punto critico in cui produzione di merci-cose e sopravvivenza diventano inconciliabili, riduzione del lavoro vivo e incremento di popolazione inutile formano una miscela detonante, pol­lution e decremento del­le risorse energetiche minano la sopravvivenza del suo regno.  [485​  Apocalisse e rivoluzione]  

 

Jacques Camatte 2015  82​ 

Torniamo al Capitale. La prima sezione ha per titolo «Merce e denaro». Nel qua­dro di uno studio sul capitale, il fatto di non segnalare il carattere del­la merce e del denaro poteva portare a confusioni Tuttavia Marx in un altro testo afferma: «Partiamo dal­la merce, da questa forma specificamente sociale del prodotto, come base e presupposto del­la produ­zione capitalistica. [...] Ma d’altra parte la merce è il prodotto, il ri­sultato, di questa produzione: ciò che appare al­l’inizio come uno dei suoi ele­menti, rappresenta poi il suo prodotto piú specifico. Infatti, è solo sul­la base del­la produzione capitalistica che il pro­dotto assume la forma generale del­la merce, e piú la produzione capitalistica si sviluppa, piú tutte le componenti di questo processo diventano merci» [K. Marx, Risultati del processo di produzione immedia­to (chiamato anche VI capitolo inedito del Capitale)]. ¶ Il modo di produzione capitalistico gene­ralizza la forma mer­ce, il che è piena­mente riconosciuto e oggi di moda sotto il nome di mercificazione. Da ciò, il capi­tale si assicura un solido presupposto per la crescita del proprio processo. Tale mercificazione è d’altra par­te ormai un fenomeno arcaico, concluso; ciò di cui a questo pun­to si tratta è una capitalizzazione. ¶ Di conseguenza sarebbe stato bene for­mulare il titolo del primo capitolo: «La merce e il denaro come presupposti del capitale», per poi spiegare come non solo la moneta (il denaro) ma le merci (la forza lavoro come i mezzi di produ­zione) sono trasformate in capitale nel corso di un processo di produzione imme­diato, unità di un processo di lavoro e di un processo di valorizzazione. Se non avvenisse cosí, il binomio, la dualità de­naro-merce, persisterebbe e la disconti­nuità che normalmente s’impone sarebbe escamotata: «La produzione capitalisti­ca è produzione di plusvalore». Questa conferisce al­la forma moneta e al­la forma merce un contenuto nuovo. Non si deve dimenticare che, se il movimento del capitale è possibile solo a seguito del­la separazione degli uo­mini, del­le donne, dal­le loro comuni­tà, dal­la terra e dai mezzi di produzione, esso s’instaura e s’impone in quanto feno­meno di unione, di fusione del­la mo­neta e del­la merce, del­la forza-lavoro e dei mezzi di produzione. In seguito si svi­luppa un fenomeno di sostituzione: tutti i presupposti del capitale vengono riprodotti in forma capi­talizzata.  [373​  12. Il movimento del capitale]  

 

3.2.4.4. La tecnica del capitale

Karl Marx 1857–1858  84​ 

Finché lo strumento di lavoro rimane, nel senso proprio del­la parola, strumento di lavoro, cosí come, storicamente e immediatamente, è accolto e inserito dal capitale nel suo processo di valorizzazione, esso subisce solo una mutazione formale per il fatto che, ora, non appare piú solo — dal suo lato materiale — come mezzo di lavoro, ma anche — e nel­lo stesso tempo — come un modo particolare di esistenza del capitale determinato dal processo complessivo di quest’ultimo: come capitale fisso. Ma, una volta accolto nel processo produttivo del capitale, il mezzo di lavoro percorre diverse metamorfosi, di cui l’ultima è la macchina o, piuttosto, un sistema automatico di macchine (sistema di macchine; quel­lo automatico è solo la forma piú perfetta e adeguata del macchinario, che sola lo trasforma in un sistema), messo in moto da un automa, forza motrice che muove se stessa; questo automa consistente di numerosi organi meccanici e intel­lettuali, in modo che gli operai stessi sono determinati solo come organi coscienti di esso. Nel­la macchina, e ancor piú nel macchinario come sistema automatico, il mezzo di lavoro è trasformato — nel suo valore d’uso, e cioè nel­la sua esistenza materiale — in una realtà esterna adeguata al capitale fisso e al capitale in generale, e la forma in cui è stato accolto — come mezzo di lavoro immediato — nel processo produttivo del capitale, è tolta e trasformata in una forma posta dal capitale stesso e ad esso corrispondente. La macchina non appare in alcun modo come mezzo di lavoro del­l’operaio singolo. La sua differentia specificanon è affatto, come nel mezzo di lavoro, quel­la di mediare l’attività del­l’operaio nei confronti del­l’oggetto; ma l’attività stessa del­l’operaio è posta ora in modo che si limita essa a mediare il lavoro del­la macchina, l’azione del­la macchina sul­la materia prima; a sorvegliare questa azione e a proteggerla dal­le perturbazioni. A differenza del­lo strumento, che l’operaio anima — come un organo — del­la sua propria abilità e perizia, e il cui maneggio dipende quindi dal­la sua virtuosità. Mentre la macchina, che possiede abilità e forza al posto del­l’operaio, è essa stessa il virtuoso, che possiede una propria anima nel­le leggi meccaniche in essa operanti e consuma (come l’operaio mezzi alimentari) carbone, olio ecc. (matières instrumentales) per mantenersi continuamente in movimento. L’attività del­l’operaio, ridotta a una semplice astrazione di attività, è determinata e regolata da tutte le parti dal moto del macchinario, e non viceversa. La scienza, che costringe le membra inanimate del macchinario — grazie al­la costruzione in cui sono inserite — ad agire funzionalmente come un automa, non esiste nel­la coscienza del­l’operaio, ma agisce — attraverso la macchina — come un potere estraneo su di lui, come il potere del­la macchina stessa. L’appropriazione del lavoro vivo ad opera del lavoro oggettivato — del­la forza o attività valorizzante ad opera del valore dotato di esistenza propria —, che è nel concetto stesso del capitale, è posta — nel­la produzione basata sul­le macchine — come carattere del processo produttivo stesso, anche nei suoi elementi materiali e nel suo movimento materiale. Il processo produttivo ha cessato di essere processo di lavoro nel senso che il lavoro lo trascenda e lo comprenda come l’unità che lo domina. Esso, il lavoro, appare invece solo come organo cosciente in vari punti del sistema meccanico nel­la forma di singoli operai vivi; disperso, sussunto sotto il processo complessivo del macchinario, esso stesso solo un membro, un anel­lo del sistema, la cui unità non esiste negli operai vivi, ma nel macchinario vivente (attivo), che appare di fronte al­l’operaio come un possente organismo rispetto al­la sua attività singola e insignificante. Nel macchinario il lavoro oggettivato si contrappone al lavoro vivo — nel­lo stesso processo di lavoro — come quel potere che lo domina, che il capitale stesso è — nel­la sua forma — come appropriazione del lavoro vivo. Il fatto che il processo di lavoro è assunto come semplice momento del processo di valorizzazione del capitale è posto anche dal lato materiale attraverso la trasformazione del mezzo di lavoro in macchinario e del lavoro vivo: un semplice accessorio vivente di questo macchinario, strumento del­la sua azione.  [377​  Frammento sulle macchine, pp. 289-300]  

 

3.2.4.5. Le forze produttive del capitale

Simone Weil 1934  166​ 

Invero, Marx spiega mirabilmente il meccanismo del­l’oppressione capitalista; ma lo spiega cosí bene che si fa fatica a raffigurarsi in quale modo questo meccanismo potrebbe smettere di funzionare. Di questa oppressione si prende solitamente in considerazione solo l’aspetto economico, cioè l’estorsione del plusvalore; e, se ci si attiene a questo punto di vista, è certo facile spiegare al­le masse che questa estorsione è legata al­la concorrenza, a sua volta legata al­la proprietà privata, e che il giorno in cui la proprietà diventerà col­lettiva tutto andrà bene. Tuttavia, anche nei limiti di questo ragionamento apparentemente semplice, a un esame attento sorgono mil­le difficoltà. In effetti Marx ha ben mostrato che la ragione vera del­lo sfruttamento dei lavoratori non consiste nei desiderio di godere e di consumare che i capitalisti avrebbero, bensí nel­la necessità d’ingrandire l’impresa il piú rapidamente possibile per renderla piú potente del­le imprese concorrenti. Ora non è solamente l’impresa, ma ogni specie di Col­lettività lavoratrice, qualunque essa sia, ad aver bisogno di restringere al massimo i consumi dei propri membri per dedicare piú tempo possibile a forgiarsi armi contro le col­lettività rivali; cosicché fin quando ci sarà, sul­la superficie terrestre, una lotta per il potere, e fin quando il fattore decisivo del­la vittoria sarà la produzione industriale, gli operai saranno sfruttati. Invero, Marx supponeva appunto, senza peraltro provarlo, che ogni specie di lotta per il potere sparirà il giorno in cui il socialismo verrà realizzato in tutti i paesi industrializzati; l’unica sventura è che, come aveva riconosciuto Marx stesso, la rivoluzione non si può fare contemporaneamente dappertutto; e quando la si fa in un paese, essa non sopprime, anzi accentua la necessità per questo paese di sfruttare e opprimere le masse lavoratrici, poiché teme di essere piú debole del­le altre nazioni. Di questo la storia del­la rivoluzione russa costituisce una il­lustrazione dolorosa. ¶ Se consideriamo altri aspetti del­l’oppressione capitalista, appaiono altre difficoltà ancora piú gravi o, per essere piú precisi, la stessa difficoltà colta in una luce piú cruda. La forza che la borghesia possiede per sfruttare e opprimere gli operai risiede nei fondamenti stessi del­la nostra vita sociale, e non può essere annul­lata da alcuna trasformazione politica e giuridica. Questa forza è in primo luogo ed essenzialmente il regime stesso del­la produzione moderna, cioè la grande industria. Al riguardo abbondano in Marx formule vigorose concernenti l’asservimento del lavoro vivo al lavoro morto, «il rovesciamento del rapporto tra l’oggetto e il soggetto», «la subordinazione del lavoratore al­le condizioni materiali del lavoro». «In fabbrica» egli scrive nel Capitale
esiste un meccanismo indipendente dai lavoratori, e che se li incorpora come ingranaggi viventi (...). La separazione tra le forze spirituali che intervengono nel­la produzione e il lavoro manuale, e la trasformazione del­le prime in potere del capitale sul lavoro, trovano il loro compimento nel­la grande industria fondata sul macchinismo. Il dettaglio del destino individuale di colui che manovra la macchina sparisce come un nul­la dinanzi al­la scienza, al­le formidabili forze naturali e al lavoro col­lettivo che sono incorporati nel­l’insieme del­le macchine e costituiscono con esse il potere del padrone. Cosí la totale subordinazione del­l’operaio al­l’impresa e a coloro che la dirigono poggia sul­la struttura del­la fabbrica e non sul regime del­la proprietà. Al­lo stesso modo «la separazione tra le forze spirituali che intervengono nel­la produzione e il lavoro manuale» oppure, secondo un’altra formula, «la degradante divisione del lavoro in lavoro manuale e lavoro intel­lettuale» è il fondamento stesso del­la nostra cultura, che è una cultura di specialisti. [...]
Tutta la nostra civiltà è fondata sul­la specializzazione, la quale implica l’asservimento di coloro che eseguono a coloro che coordinano; e su un simile fondamento non si può che organizzare e perfezionare l’oppressione, di certo non al­leviarla. La società capitalista è ben lungi dal­l’aver elaborato nel suo seno le condizioni materiali di un regime di libertà e di uguaglianza, l’instaurazione di un simile regime presuppone piuttosto una trasformazione preliminare del­la produzione e del­la cultura. […]
Raramente tuttavia le credenze che danno conforto sono al­lo stesso tempo ragionevoli. Ancor prima di esaminare la concezione marxista del­le forze produttive, si è colpiti dal carattere mitologico che essa presenta in tutta la letteratura socialista, dove viene ammessa come un postulato. Marx non spiega mai perché le forze produttive tenderebbero ad accrescersi; […]
Lo sviluppo del­la grande industria ha fatto del­le forze produttive la divinità di una sorta di religione di cui Marx, elaborando la sua concezione del­la storia, ha subíto suo malgrado l’influsso. Il termine religione può sorprendere quando si parla di Marx; ma credere che la nostra volontà converga con una volontà misteriosa che sarebbe al­l’opera nel mondo e ci aiuterebbe a vincere è pensare religiosamente, è credere nel­la Provvidenza. Peraltro il vocabolario stesso di Marx lo testimonia, poiché contiene espressioni quasi mistiche, quali «la missione storica del proletariato». ¶ Questa religione del­le forze produttive, in nome del­la quale generazioni di imprenditori hanno schiacciato le masse lavoratrici senza il minimo rimorso, costituisce un fattore d’oppressione anche al­l’interno del movimento socialista; tutte le religioni fanno del­l’uomo un semplice strumento del­la Provvidenza, e anche il socialismo mette gli uomini al servizio del progresso storico, vale a dire del progresso del­la produzione. Per questo, qualunque sia l’oltraggio inflitto al­la memoria di Marx dal culto che gli oppressori del­la Russia odierna gli dedicano, esso non è del tutto immeritato.  [549​  Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, pp. 14-21]  

 

Jacques Camatte 1973  119​ 

Ma, proprio nel mentre concepisce questa spoliazione come limite, Marx arriva, nel corso del­la sua analisi, ad evidenziare la possibilità che ha il capitale di sfuggire al­le condizioni umane. Si percepisce l’autonomizzazione non del­le forze produttive, ma del capitale, poiché a un dato momento esse sono una barriera che esso deve sforzarsi di abolire [überwältingen]. In effetti ciò si realizza nel seguente modo: le forze produttive non sono piú le forze produttive del­l’uomo, ma del capitale; esse sono per lui.  [465​  Declino del modo di produzione capitalistico o declino dell’umanità?]  

 

Jean Baudrillard 1976  120​ 

In questo senso, i luddisti erano ben piú lucidi di Marx sul­la portata del­l’irruzione del­l’ordine industriale, e trovano oggi in qualche modo la loro rivincita, al termine catastrofico di questo processo, in cui lo stesso Marx ci ha fuorviato, nel­l’euforia dialettica del­le forze produttive.  [197​  Lo scambio simbolico e la morte]  

 

3.2.5. Oggettualizzazione

Jacques Camatte 2010-2023  12​ 

[voce: «Oggettualizzazione» ] Il fatto di considerarsi, o addirittura comportarsi, come un oggetto.  [201​  Glossario]  

 

3.2.6. Immortalità (cercata nel capitale)
Karl Marx 1861  32​ 
L’imperiturità (Unvergänglichkeit), al­la quale aspira il denaro mentre si rapporta negativamente di fronte al­la circolazione (sottraendosi a essa), la raggiunge il capitale, proprio per il fatto che esso si abbandona al­la circolazione.  [221​  Urtext (Grundrisse)]  

 

Karl Marx 1858  96​ 

L’imperiturità (Unvergänglichkeit), al­la quale aspira il denaro mentre si rapporta negativamente di fronte al­la circolazione (sottraendosi a essa), la raggiunge il capitale, proprio per il fatto che esso si abbandona al­la circolazione. Il capitale, come il valore di scambio che presuppone la circolazione a essa presupposto, e che si mantiene in essa, assume scambievolmente entrambi i momenti contenuti nel­la circolazione semplice, ma non come nel­la circolazione semplice passando soltanto da una del­le forme al­l’altra, bensí in ognuna del­le determinazioni è parimenti la relazione con opposto. Se esso appare come denaro, questa ora è solo l’espressione unilaterale astratta di esso come universalità; del pari togliendo questa forma, esso toglie soltanto la sua determinazione opposta (forma opposta del­la universalità). Posto come denaro, cioè come questa forma opposta al­la universalità del valore di scambio, è insieme posto in esso che non deve perdere, come nel­la circolazione semplice, l’universalità, ma la sua determinazione opposta, ovvero assume questa solo svanendo, dunque si scambia di nuovo contro la merce, ma come la merce che esprime di per sé nel­la sua particolarità l’universalità del valore di scambio, perciò muta costantemente la sua forma determinata.  [221​  Urtext (Grundrisse)]  

 

Karl Marx 1861  30​ 

Nel capitale, l’immortalità (Die Unvergänglichkeit) del valore è postulata (in una certa misura), nel senso che esso è sì incarnato nel­le merci deperibili, che ne prende la forma, ma che la cambia altrettanto costantemente; Si alterna tra la sua forma eterna nel denaro e la sua forma deperibile nel­le merci; l’immortalità (Die Unvergänglichkeit) può manifestarsi solo in forma effimera, è ciò che passa — il processo — la vita. Ma il capitale ottiene questa capacità​/​qualità solo succhiando costantemente, come un vampiro, lavoro vivo per farne la propria anima. L’immortalità (Die Unvergänglichkeit) — la durata del valore nel­la sua forma di capitale — si ottiene solo attraverso la riproduzione, che è essa stessa duplice, riproduzione come merce, riproduzione come denaro, e l’unità di questi due processi di riproduzione.  [229​  Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica]  

 

Jacques Camatte 1976  102​ 

Il capitale è accumulazione di tempo; esso lo riassorbe, lo assorbe (si può avere entrambe le modalità) e perciò si pone come eternità. Marx affronta tale questione del­l’eternità dal lato formale. Parla di Unvergänglichkeit che esprime l’idea di qualcosa d’imperituro e nel contempo l’idea che non si può passare ad altro: ¶ «L’eternità — durata del valore nel­la sua forma capitale — è posta soltanto tramite la riproduzione che è essa stessa duplice: riproduzione in quanto merce, riproduzione in quanto denaro e unità di questi due processi di riproduzione (Grundrisse)». ¶ Sviluppata dal punto di vista del­la sostanza, l’eternità del capitale implica anche l’evanescenza degli uomini, vale a dire tanto la loro scarsa durabilità quanto la loro insignificanza. Il capitale sottrae al­l’uomo il tempo — elemento del suo sviluppo, secondo Marx. Esso crea un vuoto nel quale il tempo si abolisce; l’uomo perde un riferimento importante, non può piú riconoscersi, percepirsi. E il tempo congelato gli sta di fronte.  [225​  Marx e la Gemeinwesen, p. 19 ]  

 

Jacques Camatte 2015  83​ 

Marx termina il primo libro con la setti­ma sezione: «L’accumulazione del capi­tale», che si trova in corrispondenza, con­cordanza, con la terza parte del capi­tolo «I risultati», vale a dire: «La produ­zione capitalistica è produzione e ripro­duzione del rapporto di produzione spe­cificamente capitalistico». ¶ Aggiungia­mo che nel­la settima sezione si trova una certa confusione di termini tra accumula­zione e riproduzione. Il capita­le non accumula, né si accumula, ma si riproduce su scala costantemen­te al­largata. È il denaro, in quan­to numerario, in quanto moneta, che fu accumulato sotto forma di tesoro, tesaurizzato, il che costituiva ostaco­lo al movimento del valore. Se il capitale accumulasse, non avrebbe inva­so tutti gli ambiti del­la vita umana, come si è effettivamente realizzato in seguito al­la sua riproduzione sempre al­largata. L’accumulazione evoca qualcosa di stati­co; si potrebbe dire una staticità. Al contrario la riproduzione implica la flui­dità, come è spiegato in Risultati.  [373​  12. Il movimento del capitale]  

 

3.2.7. Morte potenziale del capitale

Jean Baudrillard 1976  0​ 

Ci sono sempre state del­le chiese per nascondere la morte di Dio, o per nascondere che Dio era dovunque, il che è la medesima cosa. Ci saranno sempre riserve di animali e di indiani per nascondere che questi sono morti, e che siamo tutti degli indiani. Ci saranno sempre del­le fabbriche per nascondere che il lavoro è morto, che la produzione è morta, o che essa è dovunque e in nessun luogo. Perché oggi non serve a nul­la combattere il capitale sotto forme determinate. In compenso, se diventa chiaro che esso non è piú determinato da chicchessia, e che la sua arma assoluta è di riprodurre il lavoro come immaginario, al­lora è lo stesso capitale che è assai vicino a crepare.  [197​  Lo scambio simbolico e la morte, p. 32]  

 

Jacques Camatte 2010-2023  17​ 

[voce: «Morte potenziale del capitale»] Ha luogo a partire dal momento in cui il numero di coloro che fanno circolare il plusvalore diventa maggiore di quel­lo di coloro che lo producono. Si verificò dapprima negli USA verso la metà degli anni cinquanta del secolo scorso e tende a diffondersi nel­le varie aree. È anche legata a un’enorme sostantificazione (produzione di capitale fisso) che inibisce il movimento incessante del capitale che è tale solo se si capitalizza indefinitamente. Da qui il massiccio dispiegamento del­la speculazione che corrisponde a un’autonomizzazione del­la forma capitale e, tendenzialmente, al­la sua evanescenza nel­la virtualità.  [201​  Glossario]  

 

3.3. Risultati e fini del processo

3.3.1. Sostituzione della comunità • Comunità materiale
Karl Marx 1858  24​ 
Il denaro appare qui di fatto come la loro comunità (Gemeinwesen) esistente materialmente al di fuori di loro.  [221​  Urtext (Grundrisse), p. 60 (Nota) ]  

 

Karl Marx 1844  165​ 

Ma la comunità dal­la quale il lavoratore è isolato è una comunità di ben altra realtà e di ben altra estensione che non la comunità politica. Questa comunità, dal­la quale il suo lavoro lo separa, è la vita stessa, la vita fisica e spirituale, la moralità umana, l’attività umana, l’umano piacere, l’essenza umana. L’essenza umana è la vera comunità umana [Das menschliche Wesenist das wahre Gemeinwesen der Menschen]. Come il disperato isolamento da essa è incomparabilmente più universale, insopportabile, pauroso, contraddittorio del­l’isolamento dal­la comunità politica, così anche la soppressione di tale isolamento e anche una reazione parziale, una rivolta contro di esso, è tanto più infinita quanto più infinito è l’uomo rispetto al cittadino e la vita umana rispetto al­la vita politica.  [545​  Glosse critiche in margine all’articolo «Il Re di Prussia e la riforma sociale: osservazioni di un prussiano», pp. 222–223]  

 

Karl Marx 1844  37​ 

E se il denaro è il vincolo che mi unisce al­la vita umana, che unisce a me la società, che mi col­lega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli?  [238​  Manoscritti del 1844]  

 

Karl Marx 1861  28​ 

Poiché il denaro stesso è la comunità (Gemeinwesen), non può tol­lerare altro davanti a sé (...) Quando il denaro non è lui stesso la comunità, deve dissolverla.  [316​  Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie]  

 

Karl Marx 1861  26​ 

Nel­la società borghese, ad esempio, l'operaio esiste in modo puramente inoggettivo, soggettivo; ma la cosa che gli sta di fronte è ormai diventata la comunità reale (Gemeinwesen) che egli cerca di divorare ma che divora lui stesso.  [316​  Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie]  

 

Karl Marx 1861  27​ 

Il denaro diventa così, direttamente e simultaneamente, la comunità reale, la Gemeinwesen, poiché è la sostanza generale del­la sopravvivenza di tutti, e al­lo stesso tempo il prodotto sociale di tutti...  [316​  Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie]  

 

Jacques Camatte & Gianni Collu 1969  54​ 

Il punto di partenza del­la critica del­l’attuale società del capitale, deve essere la riaffermazione dei concetti di dominio formale e dominio reale come fasi storiche del­lo sviluppo capitalista. Ogni altra periodizzazione del processo di autonomizzazione del valore […] non ha fatto altro che mistificare il passaggio del valore al­la sua autonomia completa, vale a dire l’oggettivazione del­la quantità astratta in processo nel­la comunità materiale.  [292​  Transizione]  

 

Jacques Camatte 1976  25​ 

Nel­l’insieme del­l’opera di Marx, vi è dunque giustapposizione tra l’individuazione di un movimento del capitale che si costituisce in comunità materiale e l’affermazione del­la sua impossibilità, legata al­la fol­le speranza che il proletariato si ribel­li a tempo e distrugga il modo di produzione capitalistico (MPC). Ora, la comunità capitale esiste; ciò comporta l’abbandono di ogni teoria classista e la comprensione del fatto che un’immensa fase storica si è conclusa.  [225​  Marx e la Gemeinwesen]  

 

3.3.1.1. Gemeinwesen
Karl Marx 1844  35​ 
(...) il mio umano, comune essere (mein menschliches, mein Gemeinwesen).  [238​  Manoscritti del 1844]  

 

Karl Marx 1844  153​ 

Posto che noi avessimo prodotto come uomini: ciascu­no di noi nel­la sua produzione a­vrebbe doppiamente affer­mato sé stesso e l’al­tro. Io avrei 1) oggettivato nel­la mia pro­duzione la mia individualità, la sua peculiarità, e dun­que tan­to du­rante l’attività avrei goduto una individuale esterio­riz­za­zione di vita, quanto nel­la contemplazione del­l’oggett­o a­vrei goduto la gioia individuale di sapere la mia personali­tà co­me potere oggettivo, sensualmente con­tem­plabile, e dun­que sopra ogni dubbio sublime. 2) Nel tuo godimento o nel tuo uso del mio prodotto, io avrei immedia­ta­men­te il go­dimento, tanto del­la coscienza di aver soddi­sfatto nel mio lavoro un bisogno umano, quanto di avere oggettivato l’es­se­re umano e dunque di aver procurato il suo oggetto cor­rispon­dente al bisogno di un altro essere u­mano; 3) di essere stato per te il mediatore fra te e il gene­re, dunque di essere saputo e sentito da te stesso come un complemento del tuo proprio essere e come una parte neces­saria di te stesso, quin­di di sapermi confermato tanto nel tuo pensiero quan­to nel tuo amore; 4) di aver creato im­media­ta­men­te nel­la mia indi­viduale esteriorizzazione di vita, dunque di avere immedia­tamente confermato e realizza­to nel­la mia attività indivi­duale il mio vero essere, il mio umano, comune essere (mein men­schliches, mein Gemeinwe­sen).  [320​  Estratti dal libro di James Mill, «Éléments d’économie politique»]  

 

Karl Marx 1844  66​ 

Poiché l’essenza umana è la vera Gemeinwesen [essenza comune] degli uomini, gli uomini, realizzando la loro essenza, producono la Gemeinwesen umana, l’essenza sociale, che non è una potenza universale-astratta contrapposta al singolo individuo, ma è l’essenza di ciascun individuo, la sua propria attività, la sua propria vita, il suo proprio spirito, la sua propria ricchezza. Non dal­la riflessione ha dunque origine quel­la Gemeinwesen, quindi essa appare prodotta dal bisogno e dal­l’egoismo degli individui, ossia dal­la realizzazione immediata del­la loro stessa esistenza. Non dipende dal­l’uomo che questa Gemeinwesen sia o non sia; ma fintantoché l’uomo non si riconosce come uomo e dunque non ha organizzato umanamente il mondo, questa Gemeinwesen appare sotto la forma del­l’estraneazione. Poiché il suo soggetto, l’uomo, è un essere estraniato a sé stesso. Gli uomini sono questa essenza, non in una astrazione, ma come individui reali, viventi e particolari. Come sono gli uomini, cosí è la loro essenza. È dunque la stessa e identica cosa dire che l’uomo è estraniato a sé stesso e che la società di quest’uomo estraniato è la caricatura del­la sua reale Gemeinwesen, del­la sua vera vita generica; e dunque che la sua attività gli appare come tormento, la sua propria creazione come una potenza estranea, la sua ricchezza come povertà, il vincolo essenziale che lo lega al­l’altro uomo come un vincolo inessenziale, che anzi la separazione dal­l’altro uomo gli appare come la sua vera esistenza; che la sua vita appare come sacrificio del­la sua vita, la realizzazione del­la sua essenza come vanificazione del­la sua vita, la sua produzione come produzione del­la sua nul­lità e il suo potere sul­l’oggetto come il potere del­l’oggetto su di lui; che egli, il signore del suo prodotto, appare come il servo di questo prodotto.  [320​  Estratti dal libro di James Mill, «Éléments d’économie politique»]  

 

Jacques Camatte 2010-2023  104​ 

[voce: «Individualità»] Attitudine a porsi in quanto momento di emergenza e unità percettibile del fenomeno vita. ¶ Per tendere ad evitare ogni riduzione, parlo di individualità-Gemeinwesen per significare che non c’è separazione tra le due, né a maggior ragione opposizione. L’individualità ha la dimensione Gemeinwesen, per il fatto stesso del­la sua emergenza, non seguita da una separazione, ma dal mantenimento del­la partecipazione al fenomeno vita.  [201​  Glossario]  

 

Jacques Camatte 2010-2023  10​ 

[voce: «Gemeinwesen»] Concetto ampiamente utilizzato da K. Marx e G.W.F. Hegel. Non indica solo l’essere comune, ma anche la natura e l’essenza comuni (Wesen). È ciò che ci fonda e ci accomuna, partecipando al­lo stesso essere, al­la stessa essenza, al­la stessa natura. È la modalità di manifestazione di questo essere partecipante. ¶ Posso aggiungere un’interpretazione personale di gemein. Ge è una particel­la inseparabile che esprime la generalità, il comune, il col­lettivo. Mein indica ciò che è individuale: il mio. In ciò affiora in sottinteso l’idea di una non separazione tra ciò che è comune e ciò che è individuale; il che implica il concetto di partecipazione in cui si percepisce sé in un tutto che è come consustanziale. ¶ La Gemeinwesen si presenta dunque come l’insieme del­le individualità, la comunità che risulta dal­le loro attività nel­la natura e nel mondo creato dal­la specie; nel­lo stesso tempo le ingloba, e ad esse dà la loro naturalità (indicata da wesen), la loro sostanza come generalità (indicata da gemein), in un divenire (wesen).  [201​  Glossario]  

 

3.3.2. Sostituzione dell'uomo
Amadeo Bordiga 1950  77​ 
Il Capitale offre tutti i miliardi di quattro secoli di accumulazione per lo scalp del suo grande nemico: l'Uomo.  [363​  Imprese economiche di Pantalone]  

 

Jean Baudrillard 1976  105​ 

Bisogna distinguere ciò che non dipende che dal modo e ciò che dipende dal codice del­la produzione. Prima di diventare elemento del­la legge mercantile del valore, la forza-lavoro è innanzitutto uno statuto, una struttura d’obbedienza a un codice. Prima di diventare valore di scambio o valore d’uso, essa è già, come qualsiasi merce, il segno del­la trasformazione del­la natura in valore, ciò per cui si definisce la produzione, e che è l’assioma fondamentale del­la nostra cultura, e di nessu’altra. Ben piú profondamente del­le equivalenze quantitative, è questo messaggio che corre anzitutto sotto la merce: sradicamento del­la natura (e del­l’uomo) dal­l’indeterminazione per sottometterlo al­la determinazione del valore. Lo si può provare nel­la rabbia costruttiva dei bul­ldozer, del­le autostrade, del­le «infrastrutture», nel­la rabbia civilizzatrice del­l’era produttiva, questa rabbia di non lasciare improdotta nessuna parcel­la, di segnare tutto con la produzione, senza nemmeno la speranza d’un aumento di ricchezza: produrre per segnare, produrre per riprodurre l’uomo segnato. Cos’è altro la produzione al giorno d’oggi se non questo terrorismo del codice? Questo ridiventa altrettanto chiaro che per le prime generazioni industriali, che considerarono le macchine come dei nemici assoluti, portatori d’una destrutturazione totale, prima che si sviluppasse il dolce sogno d’una dialettica storica del­la produzione. Le pratiche luddiste che sorgono un po’ ovunque, la furia selvaggia che se la prende con gli strumenti di produzione (e in primo luogo con se stessa in quanto forza produttiva), il sabotaggio endemico e la defezione la dicono lunga sul­la fragilità del­l’ordine produttivo. Rompere le macchine è un atto aberrante se queste sono dei mezzi di produzione, se permane l’ambiguità del loro valore d’uso futuro. Ma se crol­lano i fini di questa produzione crol­la anche il rispetto dovuto ai mezzi, e le macchine appaiono secondo il loro vero fine, come segni operatori diretti, immediati, del rapporto sociale di morte di cui vive il capitale. Nul­la s’oppone al­lora al­la loro distruzione immediata. In questo senso, i luddisti erano ben piú lucidi di Marx sul­la portata del­l’irruzione del­l’ordine industriale, e trovano oggi in qualche modo la loro rivincita, al termine catastrofico di questo processo, in cui lo stesso Marx ci ha fuorviato, nel­l’euforia dialettica del­le forze produttive.  [197​  Lo scambio simbolico e la morte, pp. 24-25]  

 

Roberto Pecchioli 2024  115​ 

Harari afferma in Da animali a dèi che
«non sembra esserci alcuna barriera tecnica insormontabile che impedisce di produrre superumani. Gli ostacoli principali sono le obiezioni etiche e politiche che hanno ral­lentato il ritmo del­la ricerca umana. E per quanto convincenti possano essere le argomentazioni etiche, è difficile vedere come possano resistere a lungo al passo successivo, soprattutto quando la posta in gioco è la possibilità di prolungare indefinitamente la vita umana, sconfiggere malattie incurabili e migliorare le nostre capacità cognitive e mentali».L’esca è la salute, ma l’obiettivo è la morte. ¶ A Davos, montagna incantata del­la transumana Agenda 2030, così si è espresso Harari:
«la scienza sta sostituendo l’evoluzione per selezione naturale con l’evoluzione attraverso un disegno intel­ligente. Questo non è il disegno intel­ligente di qualche Dio che sta al di là del­le nuvole [clouds], ma è il NOSTRO disegno intel­ligente, del­le nostre nuvole [i clouds informatici, N.d.A.], i clouds di IBM e di Microsoft. Queste sono le nuvole che guideranno la nostra evoluzione». Gli applausi scroscianti dei presenti — tutti membri di primo piano del­le oligarchie economiche, finanziarie, tecnologiche e politiche — mostrano qual è il pensiero dominante, il materialismo greve da cui è animato, il delirio di onnipotenza convinto di avere detronizzato e sostituito Dio.
Per la cupola di potere, ubriaca di hybris, la transumana futura umanità, diversa antropologicamente e ontologicamente dal­la vecchia, ha bisogno di una drastica sfoltita. Harari, ha il pregio del­la franchezza. La maggior parte del­le persone è «inutile», non più «necessaria». Siamo obsoleti, eccedenti, un impaccio da risolvere. Corre un brivido lungo la schiena.
«Semplicemente non avremo più bisogno del­la stragrande maggioranza del­la popolazione, perché il futuro prevede lo sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate, come l’intel­ligenza artificiale [e] la bioingegneria».  [449​  L’uomo inutile e l’arca dell’oligarchia]  

 

3.3.3. Sostituzione della natura
Ludwig Klages 1913  112​ 
Si è perciò coniata anche la parola «mammonisino», ma certo solo pochi si sono resi conto che questo Mammona è un essere reale che s’impadronisce del­l’umanità come di uno strumento per annientare la vita del­la terra.  [437​  L’uomo e la terra]  

 

Ludwig Klages 1913  110​ 

Ma dove l’uomo del progresso ha assunto il dominio di cui si vanta, ha seminato attorno a sé soltanto assassinio, terrore e morte. Cosa resta a noi, per esempio, del regno animale del­la Germania? Orso e lupo, lince e gatto selvatico, bisonte, alce e uro, aquila e avvoltoio, gru e falco, cigno e gufo si erano trasformati in favola, prima che cominciasse la moderna opera di annientamento. Questa li ha davvero fatti scomparire del tutto. Con il più assurdo di tutti i protesti — che innumerevoli specie animali sano «nocive» — essa ha sterminato quasi tutto ciò che non si chiami lepre, starna, capriolo, fagiano e tutt’al più cinghiale. Verro, stambecco, volpe, martora, tasso e lontra, animali a cui la leggenda associa antichissime memorie, si sono ridotti di numero — laddove non siano già del tutto scomparsi; gabbiano fluviale, rondine di mare, cormorano, podicipedidi, airone, martin pescatore, nibbio reale, civetta sono abbandonati ad una persecuzione sconsiderata, i banchi di foche nel mare del Nord sono votate al­lo sterminio. Si conoscono più di duecento nomi di città e paesi tedeschi che derivano da castoro [Biber] — una prova del­la diffusione del­l’instancabile roditore nei tempi passati, oggi sono sopravvissute ancora poche colonie nel­l’Elba, tra Torgau e Wittenberg, e già sarebbero sparite senza la tutela del­la legge! E chi non ha avvertito con segreta angoscia la sempre più veloce diminuzione — di anno in anno — dei nostri amati cantori gli uccel­li migratori! Solo una generazione fa perfino nel­le città in estate il cielo azzurro era invaso dal frul­lio del­le rondini e dei rondoni, un suono da cui sembrano trasparire la lontananza e l’istinto migratorio. Al­lora si contavano in un sobborgo di Monaco trecento nidi, oggi quattro o cinque. Perfino sul­la campagna è sceso un inquietante silenzio, e non si canta neppure più come nel­le fresche mattine di cui parlano le gioiose poesie di Eichendorff «innumerevoli al­lodole». Si deve ormai avere fortuna, per poter ascoltare ancora camminando su un lontano sentiero di bosco, proveniente da assolate distese, il richiamo luminoso e pieno di presagi del­la quaglia, che, un tempo, per mil­le e mil­le sere ha riempito il suolo tedesco e vive nei canti del popolo e dei poeti. Gazza, picchio, rigogolo, cincial­legra, codirosso, capinera, usignolo — a quanto si vede, tutti spariscono.  [437​  L’uomo e la terra, pp. 38–39]  

 

 

Fonti

AA.VV.

1982 380  Dictionnaire critique du marxisme, in Traduzioni ad hoc29​ 94​

2024 493  Informazioni comuni139​

Giorgio Agamben

1996 537  Mezzi senza fine, Ed. Bollati Boringhieri, 1996163​

Günther Anders

1956 340  L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Ed. Il Saggiatore, 1963, L. Dallapiccola70​ 99​ 100​

Anonymous

2600-2450 a.C. 391  L'epopea di Gilgamesh85​

Aristotélēs

IV a.C. 405  Politica90​

Jean Baudrillard

1968 433  Il sistema degli oggetti, Ed. Bompiani, 1972, Saverio Esposito108​ 109​

1970 477  La società dei consumi, Ed. il Mulino, 2010, G. Gozzi & P. Stefani124​ 125​ 126​

1972 250  Per una critica dell’economia politica del segno, Mazzotta editore, 1974, Mario Spinella40​

1976 197  Lo scambio simbolico e la morte, Ed. Feltrinelli, 1992, Girolamo Mancuso0​ 105​ 120​

1986 473  America, Ed. SE, 2000, Laura Guarino122​ 123​

Ludwig von Bertalanffy

1968 533  Teoria generale dei sistemi, 1969162​

Amadeo Bordiga

1950 363  Imprese economiche di Pantalone, 1950 77​

1966 359  Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, 196676​

Jacques Camatte

1966-1968 328  Il capitale totale, Ed. Dedalo, 1976, Giovanni Dettori, Nicomede Folar [Domenico Ferla]67​

1972 300  Nota del 1972 «A proposito di dominio formale e dominio reale del capitale», in Il capitale totale, Ed. Dedalo, 197657​

1973 465  Declino del modo di produzione capitalistico o declino dell’umanità?, in Verso la comunità umana, Jaca Book, 1978 119​

1974 324  Questo mondo che bisogna abbandonare, Ed. Il Covile, 2019, Gabriella Rouf65​

1975 419  È qui la paura, è qui che bisogna saltare!93​

1976 225  Marx e la Gemeinwesen, in Urtext, Ed. Il Covile, 2022, Gabriella Rouf25​ 56​ 102​

1989 348  9. Il fenomeno del valore, in Emergenza di Homo gemeinwesen, Ed. Il Covile (in preparazione), Gabriella Rouf73​ 79​ 106​ 107​

1991 382  Gloses en marge d'une réalité VI, in Traduzioni ad hoc51​

1995-1997 381  Forme, réalité, effectivité, virtualité, in Traduzioni ad hoc41​

2004 497  Presentazione del sito Revue Invariance140​

2010-2023 201  Glossario, Ed. Il Covile 2​ 5​ 7​ 8​ 9​ 10​ 11​ 12​ 13​ 14​ 15​ 16​ 17​ 18​ 19​ 104​

2012 344  Inversione e disvelamento, Ed. Il Covile, 2017, Marco Iannucci71​

2015 373  12. Il movimento del capitale, in Emergenza di Homo gemeinwesen, Ed. Il Covile (in preparazione), Gabriella Rouf82​ 83​

2022 513  Précisions au sujet de Capital et Valeur, in Traduzioni ad hoc, 2024, Il Covile146​

Jacques Camatte & Gianni Collu

1969 292  Transizione, in Apocalisse e rivoluzione, Ed. Dedalo, 197354​ 55​ 89​

Cornelius Castoriadis

1986 521  Réflexions sur le «développement» et la «rationalité», in Traduzioni ad hoc, Stefano Isola149​

Giorgio Cesarano & Gianni Collu

1973 485  Apocalisse e rivoluzione, Ed. Dedalo, 1973128​ 129​ 130​ 133​

Gianni Collu

2010 245  Testimonianze di Danilo Fabbroni, 201039​

Guy Debord

1967 304  La Società dello spettacolo, Pasquale Stanziale58​ 59​ 60​

1978 276  In girum imus nocte et consumimur igni, Film, 1978 49​

Joseph de Maistre

1796 336  Considerazioni sulla Francia69​

Juan Do­noso Cortés

1849 553  Discorso sulla dittatura167​

T.S. Eliot

1935 199  Quattro quartetti : Burnt Norton, 20231​

Euripídēs

428 a.C. 441  Ippolito113​

Ludwig Feuerbach

1843 453  L’essenza del Cristianesimo116​

David Graeber & David Wengrow

2021 427  L'alba di tutto. Una nuova storia dell'umanità, Ed. Rizzoli, 2022, Roberta Zuppet 98​

Marco Iannucci

2018 355  Un percorso nell'essere in comune, Ed. Il Covile, 2018 75​ 137​

Ivan Illich

1982 288  Il genere e il sesso, Mondadori, 198452​

2002 205  La perdita del mondo e della carne, Ed. Il Covile, 2002, Giannozzo Pucci20​

Stefano Isola

2023 457  A fin di bene: il nuovo potere della ragione artificiale, Ed. Asterios, 2023117​

Costantinos Kavafis

1927 213  Anna Dalassene, in Cinquantacinque poesie, Ed. Einaudi, 1968, Margherita Dalmati & Nelo Risi.22​

Ludwig Klages

1913 437  L’uomo e la terra, Ed. Mimesis, 2020, Sandro Gorgone110​ 111​ 112​

Robert Kurz

2004 332  Congedo dal valore d’uso, in blackblog francosenia, 2016, Franco Senia68​

André Leroi-Gourhan

1964 481  Il gesto e la parola, Ed. Einaudi, 1977, F. Zannino127​ 131​ 132​ 135​ 136​

Lotario di Segni (Innocenzo III)

~1195 217  Sulla miseria della condizione umana23​

Alasdair Macintyre

1981 411  After Virtue91​

Ernest Mandel

1974 258  Introduzione al marxismo, Ed. Savelli, 1975, Livio Maitan42​

Jerry Mander

1978 203  Quattro Argomenti per Eliminare la Televisione, Ed. Dedalo, 1982, Pasquale Portoghese4​

Marcus Valerius Martialis

86-102  368  Epigrammi81​

Karl Marx

1844 238  Manoscritti del 1844, Ed. Feltrinelli, 2018, Enrico Donaggio & Peter Kammerer 33​ 34​ 35​ 36​ 37​ 72​ 134​

1844 320  Estratti dal libro di James Mill, «Éléments d’économie politique», in Marx-Engels: Opere, vol. III, Editori Riuniti, 197664​ 64​ 66​ 153​ 158​ 159​

1844 545  Glosse critiche in margine all’articolo «Il Re di Prussia e la riforma sociale: osservazioni di un prussiano», in Marx-Engels: Opere III, Editori Riuniti, 1976165​

1847 209  Miseria della filosofia, Ed. Rina­scita, 195021​ 53​ 80​ 95​

1857–1858  377  Frammento sulle macchine, in Grundrisse, Quaderni rossi, 4, 1964, Renato Solmi84​

1857 423  Marx-Engels-Werke (MEW)97​

1858 221  Urtext (Grundrisse), Ed. Il Covile, 2022 24​ 86​ 96​ 101​ 160​ 32​

1861 229  Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Ed. La nuova Italia30​

1861 316  Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, in Traduzioni ad hoc26​ 27​ 28​

1867 264  Il Capitale, Libro I, Capitolo VI inedito, Ed. La nuova Italia, 1969, Bruno Maffi44​ 45​

1867 268  Il Capitale46​ 87​ 88​ 103​

Lewis Mumford

1967 242  Il mito della macchina, Ed. Il Saggiatore, 1969, Ettore Capriolo38​ 48​

Robert Musil

1930–1943 352  L'uomo senza qualità, Einaudi, 1972, Anita Rho74​

Chuck Palahniuk

2005 489  Cavie, Ed. Mondadori, 2021138​

Roberto Pecchioli

2024 449  L’uomo inutile e l’arca dell’oligarchia, 2024 115​

Fredy Perlman

1968 469  Il feticismo delle merci. Introduzione al Saggio di I.I. Rubin sulla teoria del valore di Marx121​

Edgar Allan Poe

1840 525  L’uomo della folla, in Storie incredibili, Tipografia Pirola, 1869, Baccio Emanuele Maineri151​

Marshall Sahlins

1966 (1972) 415  L'economia dell'età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Ed. Bompiani, 1980, Lucio Trevisan92​

Carl Schmitt

1959 509  La tirannia dei valori, Ed. Pellicani, 1987, Susanne Forsthoff Falconi145​

Juliet B. Schor

1993 385  Pre-industrial workers had a shorter workweek than today's, in Traduzioni ad hoc63​

Jaime Semprun

1993 383  Dialoghi sul compimento dei tempi moderni, Ed. Quattrocentoquindici, 2008, Gabriele Pagella61​ 150​

2003 517  Il fantasma della teoria148​

2005 384  Défense et illustration de la novlangue française, in Traduzioni ad hoc62​

Georg Simmel

1917 541  Diario postumo, in Saggi di estetica, Ed. Liviana, 1970164​

Stephen Smith

2022 445  Comment in a forum, in Traduzioni ad hoc114​

Alfred Sohn-Rethel

1970 272  Lavoro manuale e lavoro intellettuale. Per la teoria della sintesi sociale, Ed. Feltrinelli, 1977, V. Bertolini & F. Coppellotti 47​ 154​ 155​ 156​

1990 280  Il denaro. L'apriori in contanti, Editore Riuniti, 1991, Francesco Coppellotti50​ 157​

Henry David Thoreau

1854 529  Walden o vita nei boschi161​

Alexis de Tocqueville

1840 557  La democrazia in America, Ed.Rizzoli, 1999, Giorgio Candeloro168​

Jean Vioulac

2009 505  L’époque de la Technique. Marx, Heidegger et l’accomplissement de la métaphysique, in Traduzioni ad hoc, Il Covile143​ 144​

A.E. van Vogt

1971 461  Battaglia per l'eternità, Libra Editrice, 1971, Ugo Malaguti118​

Simone Weil

1934 549  Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Ed. Adelphi, 1983, Giancarlo Gaeta166​

 

 

 Avvertenza • Contatti • © • Privacy

Wehrlos, doch in nichts vernichtet
Inerme, ma in niente annientato
(Der christliche Epimetheus
Konrad Weiß)

 


Legenda:     Translated by/Traduit par/Tradotto da;Title of the text in the edition/Titre du texte dans l'édition/Titolo del testo nell'edizione;  Title-Date of original text/Titre-Date du texte original/Titolo-Data del testo originale;  Downloadtext/Télécharger le texte/Scaricare il testo; Book / Livre / Libro;  Magazine/Revue/Rivista;  Print editions/Éditions imprimées/Edizioni cartacee;  Collections/Raccolte;  Manifestos/Manifestes/Manifesti;  Poems/Poèmes/Poesie;  Website.


www.ilcovile.it